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La doccia gelata della Ue farà svegliare l’Italia?

La Commissione Ue di Jean-Claude Juncker taglia le stime della crescita dell’Eurozona e boccia l’Italia: senza riforme sarà ancora recessione. Una doccia gelata per il governo Renzi, ma riprendere contatto con la realtà può fare bene…
A cura di Luca Spoldi
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Risvegliarsi da un sogno può essere particolarmente doloroso, ma può essere estremamente utile. Lo ha scoperto la borsa di Milano, che anche oggi dopo aver provato a recuperare terreno perde ampiamente quota, con indici in calo di oltre il 2% a fine giornata, dopo che  la Commissione Ue, ormai presieduta da Jean-Claude Juncker (finora a pochi giorni fa tanto caro al premier italiano Matteo Renzi perché ha promesso un piano di rilancio degli investimenti europei da 300 miliardi, sulla cui concreta realizzazione più di un dubbio è tuttavia lecito),  ha tagliato le sue previsioni sull’andamento del Pil (meno brillante del previsto), dell’inflazione (destinata a mantenersi ben sotto il 2% fino a tutto il 2016) e della disoccupazione (che non scenderà sotto l'11% prima di un paio d'anni) nell’Eurozona.  Anche per la neo-eletta Commissione Juncker, insomma, la ripresa resta un miraggio particolarmente per quei paesi, come l’Italia, che ancora devono fare i “compiti a casa”.

Secondo la Commissione l’Italia resterà in recessione per il terzo anno consecutivo e vedrà a fine 2014 il Pil calare di un ulteriore 0,4%, per poi risalire (forse, chissà, sempre che…) nel 2015 di uno striminzito 0,6% e l’anno successivo (toccando ferro, sperando che, purché non…) di un comunque modesto 1,1%. Dati inferiori sia alle previsioni riformulate per l’Eurozona nel suo complesso (la crescita del Pil è stata tagliata dal +1,2% al +0,8% quest’anno e dal +1,7% al +1,5% l’anno venturo, mentre nel 2016 dovrebbe essere pari al +1,6%) sia ovviamente alle previsioni di crescita mondiale formulate pochi giorni fa dal Fondo monetario internazionale (che vede la crescita mondiale destinata a salire del 3,3% quest’anno e del 3,8% l’anno venturo).

Ma perché in Italia non si riesce più a crescere? Anzitutto, ma non solo, a causa del peso del prelievo fiscale, delle norme e regolamenti, della crisi della domanda che la “cura letale” adottata dalla Ue fin dall’esplodere della crisi del debito sovrano, nel 2010, non ha fatto che accentuare, finendo per di più con l’accrescere anziché ridurre le differenze macroeconomiche dei singoli paesi membri dell’Unione. Ma, come ho provato a sostenere negli ultimi due anni senza molta fortuna, anche perché non cambia il quadro culturale di riferimento dell’Italia, tanto sul lato dell’offerta quanto della domanda. Perché stiamo ancora a perdere tempo, con tutto il rispetto per chi è drammaticamente coinvolto in prima persona in queste crisi, con i casi dei lavoratori di Alitalia, o delle acciaierie dell’Ilva di Taranto o dell’Ast di Terni, o finanche a chiederci quale sarà la sorte degli operai italiani di Fiat quando il gruppo verrà comprato da qualche concorrente estero, magari una volta che la famiglia Agnelli avrà messo al sicuro la proprietà di Ferrari e di qualche altro asset “di lusso”.

Quando invece sarebbe il caso, per il bene nostro e dei nostri figli, di chiederci se e come si possa investire in nuove infrastrutture (più fibra ottica, meno cemento e asfalto), in nuove competenze (più designer, più marketing manager, ma anche più albergatori o cuochi in grado di offrire un servizio che vada al di là della semplice ospitalità e cucina), in nuove aziende (il che non significa solo in nuove start-up, ma anche in esse), in nuovi settori e business o in modi innovativi con cui continuare a occuparsi di produzioni di beni e servizi “storici” italiani prima che tutti i nostri migliori marchi finiscano all’estero (il prossimo ad essere ceduto potrebbe essere il veneto Dainese, che piace agli investitori del Barhein di Investcorp).

Se questo significa fare le “riforme strutturali che anche l’Europa continua a chiederci insistentemente bene, facciamole queste benedette riforme. Ma ricordiamoci anche che non potremo più tornare a crescere come negli anni del “miracolo italiano”, del “sorpasso” ai danni della Gran Bretagna, non fosse altro perché il paese sta rapidamente invecchiando e, come capita anche in Giappone, non avendo avuto la saggezza di programmare per tempo investimenti per una popolazione (e un mercato) che invecchia, rischia ora di bruciarsi tanto le possibilità riguardo la nuova generazione (escluse in molti casi dal mercato del lavoro o destinate ad accedervi a condizioni nettamente peggiori rispetto a quelle che l’hanno preceduta) sia quella vecchia (che rischia concretamente di morire sul lavoro non potendo permettersi di perderlo, visto che di questo passo non sarà in grado di farsi una pensione, pubblica o privata che sia, se misure come il “Tfr in busta paga” dovessero essere effettivamente varate ed aver ampio seguito). Da questo quadro alcuni traggono la conclusione che non vi sia più speranza alcuna in Italia, che l’unico consiglio saggio sia quello di dire “fuitevenne” (fuggitevene), di mandare figli e nipoti a studiare, lavorare e costruirsi un futuro all’estero, lontano da una terra destinata all’impoverimento progressivo.

Non ne sono del tutto convinto, pur non escludendo affatto questa triste possibilità. Qualche aiuto potrebbe arrivarci, anche in modo insperato, dal superamento dell’incertezza legata al processo di ristrutturazione del settore creditizio (che purtroppo in Italia è risultato più rallentato che altrove in Europa e dunque non ha finito ancora di produrre effetti recessivi), o dalla decisione dei principali produttori petroliferi mondiali (Arabia Saudita in testa, ma con gli Stati Uniti che sembrano non dispiacersi troppo di una situazione che indebolisce molto più la Russia di Vladimir Putin che non i produttori di shale oil americani) di mantenere abbondante la produzione e dunque bassi i prezzi, generando una deflazione “positiva” che potrebbe consentire un allentamento della repressione fiscale europea (e italiana, forse) e dar modo alla Bce di far giungere finalmente un po’ di credito alle azienda in parallelo a un indebolimento dell’euro (quanto meno nei confronti del dollaro e forse di valute emergenti come lo yuan cinese, se non dello yen giapponese) che darebbe fiato all’export. Ma certamente tutte queste sono speranze, non certezze: per concretizzarle c’è bisogno di un lavoro che da due anni provo anch'io, insieme a ben più illustri colleghi, a sugerire con scarsi risultati. Sarà la volta buona?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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