Tengono banco anche oggi in borsa a Milano le voci attorno al futuro di Mediobanca, dei suoi vertici, delle sue controllate. Personalmente trovo la vicenda interessante come succhiare un chiodo arrugginito, eppure un esercito di giornalisti ne segue ogni giorno le peripezie, tra operazioni fatte passare come “rivoluzionarie” sotto il punto di vista industriale che puntualmente non esaltano il mercato (il matrimonio FonSai-Unipol fortemente voluto dai testimoni di nozze, i creditori Mediobanca e UniCredit, prima ancora che dai promessi sposi) e difese del proprio operato da parte del management (Alberto Nagel, nell’occhio del ciclone da settimane) che o fanno saltare le teste non allineate al proprio pensiero (Giovanni Perissinotto, ex numero uno di Generali) o scaricano sui predecessori la colpa di relazioni “privilegiate” come quelle della famiglia Ligresti (ex proprietaria della galassia Premafin, Fondiaria-Sai, Milano Assicurazioni ed azionista di Mediobanca, che controlla Generali che dovrebbe essere un concorrente della stessa FonSai).
Relazioni privilegiate ed incestuose di un debitore coi vertici dei propri creditori (Alessandro Profumo, all’epoca numero uno di UniCredit e nel frattempo divenuto presidente di Mps, Vincenzo Maranghi, delfino di Enrico Cuccia e predecessore dello stesso Nagel, piuttosto che Cesare Geronzi, già numero uno di Capitalia, poi assorbita da UniCredit, quindi paracadutato sulla poltrona di presidente di Mediobanca prima e di Generali prima di uscire a sua volta di scena), piuttosto che con altri investitori come il finanziere bretone Vincent Bollorè (azionista al 6% di Piazzetta Cuccia e capocordata dai soci francesi della banca, che avrebbe favorito l’iniziale intervento a sostegno di FonSai del gruppo francese Groupama, poi stoppato dalla Consob) pronti a far di tutto per “trattare bene” i Ligresti, antichi frequentatori dei salotti buoni finanziari e politici italiani e dunque da blandire più che esautorare nonostante l’evidente perdita di valore del gruppo dovuto alla loro gestione.
Storie da retrobottega finanziario che solitamente non emergono ma che nella crisi (terminale) del capitalismo familiare italiano vengono combattute sempre più spesso anche sui media vecchi e nuovi, quegli stessi media che poi seguono con molto minore passione vicende così miserabili come l’andamento della crisi economica, le possibili ricette per uscirne, il confronto con la situazione negli altri stati europei e a livello mondiale. Il tutto, viene il sospetto, per non far percepire appieno la decadenza italiana e come l’assenza di una vera concorrenza tra banche e tra grandi imprese, l’esistenza di sacche di inefficienza diffusa sia nel settore pubblico sia in quello privato, le mille lobbies, interessi di parte, cricche e forme varie di associativismo pesino nelle tasche degli italiani persino di più di un fisco opprimente come quello tricolore.
Fisco che dal canto suo non sta certo a guardare né agevola la ripresa, anzi: i già previsti aumenti di tariffe, imposte e accise sui carburanti si calcola peseranno mediamente per ulteriori 450 euro nelle tasche delle famiglie italiane, il che in un momento in cui le retribuzioni sono ferme (e mentre i pagamenti all’esercito di partite Iva e alle piccole imprese avvengono sempre più in ritardo, quando non vengono decurtati in modo secco) porta a prevedere facilmente una diminuzione quasi di pari importo del reddito disponibile e quindi rischia di tradursi in una ulteriore frenata dei consumi e, in prospettiva, in minori risparmi (anche sotto il profilo previdenziale, cosa che rischia di penalizzare ulteriormente una generazione di ragazzi già oggi sotto impiegata e precarizzata).
Mi ha colpito, al riguardo, un curriculum che mi è stato inviato da una laureata residente nel Nord Italia (quindi in teoria in un’area ancora relativamente “ricca” rispetto alla situazione a Sud di Roma). Una ragazza che fin dagli anni dell’università ha affiancato allo studio esperienze lavorative in stage e che poi ha inanellato una serie di ulteriori stage, collaborazioni occasionali, impieghi a progetto e a tempo determinato e che a sei anni dalla laurea ancora cerca una sua definitiva collocazione sul mercato del lavoro. Una storia come tante, come troppe, che dimostra come non possiamo permetterci di attendere oltre per rimettere in moto l’economia.
Il problema, semmai, resta quello di reperire risorse: altre tasse non è facile ipotizzarne, tagli sono difficili da fare e comunque a breve produrrebbero effetti ugualmente recessivi. Servirebbe una riduzione del costo del debito (al riguardo domani gli occhi sono puntati sulla Bce di Mario Draghi) che dia respiro allo stato e, soprattutto, la capacità di avviare vere politiche industriali e di rinnovamento del paese (dalla banda larga alle fonti energetiche rinnovabili). Un rinnovamento che porti minore corruzione, minore burocrazia, più concorrenza e competenza. Altrimenti davvero meglio, per chi è ancora giovane, andare a cercar fortuna all’estero.