C’è qualcosa di terribilmente sbagliato in questa Europa che, imbrigliata dal terrore e dall’egoismo tedesco, che impediscono una mutualizzazione del debito e politiche fiscali più espansive, non meno che dalla modestia della sua classe politica, che rimanda a tempi lunghi il varo di una maggiore integrazione di misure “straordinarie”, continua a segnare il passo con una sofferenza crescente per i paesi “periferici” (ma non solo) rispetto a quelli “core”, che vedono consolidare la ripresa e il loro benessere, come hanno dimostrato ancora una volta i dati di ieri di Eurostat sull’andamento della disoccupazione, inchiodata all’11,9% anche a febbraio (il dato non cambia dall’ottobre 2013) solo perché all’ulteriore salita in paesi come l’Italia (dal 12,9% al 13%) e perfino la “virtuosa” Olanda (dal 7,1% al 7,3%) e della “pericolante” Francia (dal 10,3% al 10,4%) ha corrisposto una tenuta della Germania (al 5,1%) e un lieve miglioramento della Spagna (dal 25,8% al 25,6%), piuttosto che dell’Austria (dal 4,9% al 4,8%) o della Svezia (dall’8,2% all’8,1%).
Il problema non è cosa ci sia di sbagliato, che anzi appare evidente: un’unione solo monetaria, non ancora politica, che pretende di adottare la stessa “ricetta” (di repressione fiscale) per tutti i paesi cercando di arrivare a un’omologazione che in altre regioni come gli Stati Uniti è favorita da una lingua comune e da una mobilità personale molto superiore a quella del vecchio continente, dove di mobile c’è solo il capitale, fuggito da tempo da paesi come l’Italia o Spagna per rifugiarsi in Germania (piuttosto che in Inghilterra) a causa di una serie di fattori disomogenei (l’esplosione della bolla immobiliare in Spagna, la crisi di credibilità del governo greco e la conseguente crisi del debito sovrano di Atene, l’assenza di crescita a fronte di una spesa pubblica di modestissima qualità e di un peso fiscale crescente nel caso italiano) che alcuni economisti come Alberto Bagnai ritengono tuttavia secondari rispetto al peso negativo della moneta, ossia dell’euro.
Il problema è semmai come in assenza di risorse ridare slancio a un’economia (quella italiana) che, secondo gli analisti di Societe Generale “appare fuori dalla recessione ma non ancora in ripresa”, con una crescita del Pil aggregato di Eurolandia che secondo gli esperti dovrebbe passare dal +1,1% atteso quest’anno al +1,4% nel 2015. Un valore che già non sarebbe sufficiente, con un’inflazione che in parallelo dovrebbe risalire dallo 0,9% a fine anno (contro lo 0,5% di febbraio) all’1,4% l’anno venturo, a far ridurre il Debito/Pil italiano (visto che il costo medio del debito resta al momento attorno al 3,5%), ma che gli esperti del gruppo francese temono possa essere ancora più modesto nel caso italiano: +0,7% quest’anno e +1% l’anno prossimo, per di più con un’inflazione che quest’anno si fermerebbe al +0,7% (dal +0,4% di febbraio) per risalire solo nel 2015 al +1,5%.
Facciamo due conti: se hanno ragione gli uomini di Societe Generale, l’Italia vedrebbe il Debito/Pil (già pari al 132,6% a fine 2013) salire al (132,6×1,035)/100,7 ossia al 136,3% in assenza di manovre correttive. Gli esperti si attendono però un taglio della spesa pubblica del 3% anche quest’anno, come già nel 2012 e nel 2013 (mentre per il 2015 stimano un taglio “solo” del 2,6%) sicché molto in teoria il debito/Pil dovrebbe iniziare a mostrare una sia pur contenuta discesa, intorno al 132,2%-132,3% se ho fatto bene i calcoli e sempre che il costo medio del debito pubblico non mutino. La speranza è ovviamente che i mercati ci diano una mano e riducano ulteriormente il costo del debito consentendo al rapporto di migliorare, magari anche senza bisogno di ridurre del 3% la spesa pubblica (perché ogni taglio di spesa a breve termine produce effetti depressivi sulla domanda interna e, in assenza di una più forte crescita della domanda estena, una minore crescita del Pil). O che ci sia una maggiore spinta dall’export. O che si possa avere un filo più di inflazione per “gonfiare” la crescita nominale del Pil.
Non avendo la sfera di cristallo gli economisti di Societe Generale si limitano per ora a sottolineare come l’economia italiana si sia “a malapena stabilizzata nel secondo semestre 2013” dopo la “severa contrazione degli scorsi due anni” e aggiungono: “Indebolita dal deteriorarsi del mercato del lavoro, dal peggioramento della competitività e da condizioni di finanziamento che stanno recuperando solo gradualmente”, la crescita del Bel Paese è vista in recupero solo parziale e con ritardo rispetto al resto di Eurolandia (allegria!). Colpa dell’euro? Gli esperti preferiscono puntare l’indice su riforme meno rapide che in altri paesi periferici (la Spagna), il che avrebbe impedendole di sfruttare appieno la già lenta ripresa della domanda estera. “Il nuovo governo sembra più determinato a lanciare riforme – concludono gli esperti – ma deve confrontarsi con la stessa debole maggioranza del precedente” e questo “limita i suoi margini di manovra”.
Per contro chi ritiene “questo” euro la causa della crisi italiana, e fa notare come Bagnai che la perdita di competitività delle aziende italiane è iniziata nel 1996 colpendo più di tutte le Pmi che costituivano (e costituiscono) l’ossatura dell’apparato produttivo italiano a differenza di quelli tedesco o francese, non si rassegna e sottolinea come nessuna riforma basterà mai a rimediare ai guasti di un’unione monetaria fatta “su misura” degli interessi altrui e ai danni dell’Italia. Una chiave di lettura che potrebbe essere condivisibile, se non fosse che, come ricorda anche Mario Seminerio l’Italia in questa situazione di crisi “esistenziale” ci si è ficcata con le proprie mani.
L’Italia attuale sconta anzitutto decenni di incuria politica, almeno un ventennio di assenza di riforme strutturali (perché quando sarebbe stato possibile farle si è preferito evitare ogni scontro sociale che avrebbe avuto un costo politico elevato), un pernicioso convincimento (anche fuori dall’Italia) che l’unione monetaria da sola potesse determinare la fine del rischio di credito facendo sì che un titolo di stato italiano (o greco, o spagnolo) potesse e dovesse valere quanto un Bund tedesco (cosa che peraltro è accaduta per un certo tempo). Come l’ingresso nell’euro avrebbe dovuto portarci nell’età dell’oro (ma non poteva e non l’ha fatto) così l’uscita dal medesimo, ragiona Seminerio, sembra ad alcuni promettere altrettanta felicità e fortuna. Peccato che anche in questo caso difficilmente sarà così, ove mai uscissimo dall’euro.
Perché? Perché chi predica un “ritorno alla lira” anche in buona fede e non per calcolo elettorale in vista delle prossime elezioni europee, non sembra tener conto di “conseguenze non previste”, come il contenzioso legale cui andrebbero incontro ad esempio società come Enel che hanno emesso eurobond che non potrebbero essere riconvertiti in altre valute e rischierebbero pertanto un default nel momento in cui la “nuova lira” dovesse esser svalutata per tornare “competitivi” (sennò perchè tornarvi). Col rischio di dover essere ri-nazionalizzate (coi soldi di chi non si saprebbe bene a quel punto). L’inflazione poi rischierebbe di dare anche troppo una mano a sostenere la nostra “crescita”, col rischio di passare da una quasi deflazione ad un’inflazione se non galoppante come negli anni Ottanta almeno tra il 4% e il 6% come negli anni Novanta, quelli “prima dei guasti dell’euro” per intenderci. Il che rischierebbe di avere un impatto su quotazioni e rendimenti dei titoli di stato, oltre che su tutti i tassi sui prestiti, dai mutui ai finanziamenti al consumo.
Insomma: i problemi dell’Italia “questo” euro non li risolve certamente, ma non era questo lo scopo per cui è stato creato: in compenso neppure una fuga da “questo” euro potrà farlo (salvo che non scommettiate in un “happy ending” con investitori internazionali pronti a finanziare a piene mani la ripresa italiana, o al contrario in un default in stile Grecia o Argentina, con tutto quello che ne seguirebbe). Il capitalismo ricco di relazioni e povero di capitali, l’invecchiamento della popolazione, la feroce difesa delle rendite di posizione in tutti i settori non ancora aperti alla concorrenza, l’inadeguatezza dell’intera classe politica e di gran parte di quella industriale e bancaria non sono problemi legati alla moneta, ma alla cultura di un paese. Così come non dipende dalla moneta una politica energetica decente (già in Italia l’energia costa più che in altri paesi, pensate che pagare gas e petrolio con una lira “competitivamente svalutata” possa giovare a ridurre i costi?) o un’altrettanto decente politica a favore dell’innovazione. So che deluderò alcuni amici che stimo e che continuano a vedere nell’euro non l’unica ma la principale fonte dei problemi italiani. Ma temo che in assenza di riforme e di un rinnovamento culturale profondo la crisi italiana sia destinata a durare oltre le discussioni a favore o contro l’euro.