Mala tempora currunt, sed peiora parantur di questo passo. La Commissione Ue è tornata oggi a strigliare i governi europei ricordando loro che debbono tagliare il debito pubblico e modernizzare il mercato del lavoro se vogliono sperare in una crescita “forte e sostenibile”. Il vice presidente della Commissione Ue, , ha in particolare ribadito come “decisive azioni politiche per riformare e modernizzare le nostre economie” costituiscano “l’unica strada per assicurarci una crescita forte e sostenibile, più lavoro e buone condizioni sociali” mentre “alti livelli di debito pubblico e privato, la vulnerabilità del settore finanziario e la competitività in calo” rimangono i problemi da affrontare, soprattutto da parte di paesi come Francia, Spagna e Italia che più volte hanno mancato gli obiettivi prefissati e che sono ancora in ritardo rispetto agli impegni presi.
Fin qui niente di nuovo rispetto alla consueta e un po' trita dialettica tra la Commissione Ue e i paesi membri della Ue, ma con l’occasione la Commissione Ue ha anche limato le previsioni macroeconomiche per l’area dell’euro, di cui ora prevede una crescita a livello di Pil dell’1,6% quest’anno e dell’1,8% l’anno venturo (entrambe ridotte di uno 0,1% rispetto alle previsioni precedenti). Ora, il problema è sempre lo stesso: con un’inflazione che in aprile dovrebbe essere risultata nell’area dell’euro negativa e pari a -0,2% secondo le stime di Eurostat di pochi giorni or sono (ovvero pari a -0,4% in Italia, secondo le stime di Istat), la crescita nominale del Pil finisce con l’essere ancora più modesta e di questo passo potrebbe risultare inferiore all’1,5% a fine anno a livello di Eurolandia e ancor più bassa in Italia.
Sempre secondo la Commissione Ue il Pil italiano dovrebbe crescere in termini reali dell’1,1% quest’anno e dell’1,3% l’anno venturo e questo complica un poco le cose, perché significa prevedere un’ulteriore crescita del debito pubblico italiano in assenza di ulteriori interventi (che quindi rischiano di concretizzarsi sotto forma della “consueta” manovra correttiva estiva). Infatti nonostante che dal 2000 a fine marzo scorso il costo medio del debito di nuova emissione sia calato dal 4,79% allo 0,62%, con un evidente minor aggravio per le casse pubbliche, il costo medio del debito, a fronte del quale a fine marzo erano in circolazione oltre 1.872 miliardi di euro di titoli di stato (per il 68,34% rappresentati da Btp di varia scadenza), cala molto più lentamente ed è al momento dovrebbe oscillare attorno al 4,2%, come già previsto dalla nota di aggiornamento del Def lo scorso settembre.
Anche prendendo come fa la stessa Commissione Ue che l’inflazione passi da un 0,2% a fine 2016 ad un 1,4% a fine 2017, il Pil nominale risulterebbe in crescita dell’1,3% quest’anno e del 2,7% l’anno venturo, meno dunque del 4,2% di incremento del debito quest’anno e del 4% del prossimo anno in assenza di qualsivoglia modifica della spesa, per il solo effetto del costo per interessi. Il rapporto debito/Pil salirebbe ulteriormente quindi, anziché ridursi dal 132% al 130% e poi al di sotto di tale soglia come previsto dal governo per quest’anno e quello venturo. Il problema è che la “spending review” è apparentemente sparita dai radar del governo o, più verosimilmente, è destinata a rimanere argomento “taboo” almeno fino a dopo le elezioni amministrative del prossimo 5 giugno o, peggio, dopo il referendum costituzionale del prossimo autunno.
Il rischio è che nel frattempo la spesa anziché diminuire “virtuosamente” aumenti “elettoralmente”, il che non è mai garanzia di equità sociale della spesa medesima né di utilità di tale spesa ai fini di una crescita sostenibile, come si è visto del resto già negli ultimi due anni quando nonostante “bonus” vari e riforme più o meno strutturali dal lato dell’offerta non si sono avuti miglioramenti degni di nota se non su base assolutamente temporanea e fortemente aleatoria. Nel frattempo la “fragilità” del settore finanziario di cui parla la Commissione è sotto gli occhi di tutti e anche la Bce deve ribadire che provvedimenti come quelli delle Gacs, o relativamente all’abbreviamento dei termini per l’escussione delle garanzie, per non parlare del fondo Atlante, sono passi “positivi”, che vanno “nella giusta direzione” ma che no bastano a provocare cambiamenti significativi a breve termine.
Personalmente ho il dubbio se possano produrne anche a lungo termine: non si capisce infatti perché una o più banche debbano prestare soccorso ad una concorrente (come avvenuto per Bpvi) finendo comunque con l’acquistarne il controllo pressoché totale, anziché procedere a rilevarne i singoli asset (tra cui nel caso specifico c’è anche il 15% di Cattolica Assicurazioni, che incidentalmente è concorrente di Unipol Assicurazioni, presente tra i sottoscrittori del fondo Atlante) e quale vantaggio possa offrire se non riuscire a mettere le mani su capitali pubblici (quelli forniti da CdP, che dopo il precedente di Saipem di questo passo dovrà stare molto attenta a non finire col trasformarsi in una sorta di Efim-bis).
Anche le presunte positive riforme delle garanzie sui crediti in verità destano qualche perplessità: cosa guadagneranno le banche a subentrare nella proprietà di intere aziende, per lo più, vista la struttura economica italiana, di piccole o medie dimensioni e spesso indissolubilmente legate alla figura del fondatore? Quelli fatti finora sono dunque passi certamente piccoli, sperabilmente nella giusta direzione. Ma la sensazione è che ancora manchi quel “colpo d’ali” che potrebbe venire solo da una politica economica e fiscale europea realmente in grado di ridurre le distanze tra i paesi membri e alleviare il peso di debito (e fisco) da aziende e famiglie, magari creando le condizioni per tornare ad attrarre investimenti anche extra Ue che possano accelerare il diffondersi dell’innovazione tecnologica in tutti i campi. Perché chi non si aggiorna è condannato a finire emarginato, ma chi non ha capitali difficilmente può aggiornarsi e quindi siamo punto e a capo.