Non c’è due senza tre e anche oggi i mercati finanziari mondiali hanno proseguito nel loro capitombolo, complice il secondo -7% (e conseguente blocco delle contrattazioni) segnato dai listini azionari cinesi, dopo che per l’ottavo giorno consecutivo la banca centrale di Pechino ha ridotto il tasso di riferimento del cambio ufficiale yuan/dollaro, attuando così la più consistente svalutazione della propria divisa da quella dello scorso agosto che già aveva causato non poche turbolenze sui mercati e fatto sorgere i primi timori che in un mondo dove la crescita è da anni sotto la “tenda d’ossigeno” di tassi tenuti artificiosamente a zero dalle banche centrali, la decisione presa a dicembre dalla Federal Reserve di iniziare ad alzare lentamente i tassi stessi possa rivelarsi meno indolore di quanto inizialmente dato per scontato dagli investitori.
Nel tentativo di venire a capo di una situazione che sembra farsi ogni giorno più ingarbugliata le autorità cinesi hanno deciso che la nuova regola, adottata da inizio anno, che impone lo stop agli scambi sul circuito elettronico nazionale ogni volta l’indice Csi 300 cade di oltre il 7%, verrà per il momento sospesa. Inoltre il divieto a vietare i propri titoli per gli azionisti con quote superiori al 5% in un’azienda quotata, che pareva destinata ad essere prorogata oltre la scadenza naturale odierna, è stata limitato ad un limite, per i prossimi tre mesi, a cedere oltre l’1% del capitale, dando dunque la possibilità di operare almeno a livello di trading. Le misure non sembrano tuttavia avere ancora convinto del tutto gli investitori.
Se ieri George Soros, investitore miliardario ungherese naturalizzato americano, co-fondatore nel 1970 del Quantum Fund e famoso per aver spinto la sterlina e la lira fuori dallo Sme (il sistema di cambi semi-rigidi europeo antesignano dell’euro) nel 1992, parlando in Asia ha avvertito che i mercati sembrano intenzionati a entrare in una fase “orso” (ribassista) che potrebbe rivelarsi violenta quanto quella del 2008, oggi gli analisti della società di gestione francese Amundi hanno definito “appropriata” la politica macroeconomica che la banca centrale cinese sembra perseguire, visto che la crescita economica cinese sembra stabilizzarsi e poter fungere, quest’anno e il prossimo, da stabilizzatore per l’economia globale più che da fattore di ulteriore instabilità.
Secondo gli esperti francesi la politica monetaria espansiva (simile come effetti ad un “quantitative easing” come quelli già varati dalla Federal Reserve, dalla Bank of Japan e dalla Banca centrale europea) e quella meno restrittiva in campo fiscale, oltre che le politiche di investimento a supporto dei mercati da parte delle autorità cinesi “continueranno e si estenderanno nel 2016 e oltre, contrastando la crisi economica”. La liquidità è destinata a rimanere “ampia”, vista “l’aggressiva politica monetaria espansiva” e a sostenere l’intero mercato. Tuttavia la pressione di vendita è elevata e quindi occorre attendersi una altrettanto elevata volatilità sui mercati (cinesi e non solo, aggiungo io) nel corso dell’anno.
Le incertezze relative alla tenuta della Cina (che per Soros fatica a trovare un nuovo modello di crescita e tramite al svalutazione dello yuan trasferisce in parte i suoi problemi al resto del mondo) e delle economie emergenti in genere pesano anche sul petrolio, che oggi danza sui 33,5 dollari al barile, tornando così a livelli del 2003. Se questo contribuisce a tenere alta la tensione sui mercati, potrebbe tuttavia rivelarsi un fattore a sostegno della crescita dell’Eurozona ribadiscono in una ricerca gli analisti del Credit Suisse, che pensano che finalmente la ripresa del vecchio continente si rafforzerà (in media) sino ad un +1,8% di Pil (dal +1,5% previsto per il 2015), con lo stesso che, a livello aggregato, tornerà sopra i livelli di inizio 2008.
Secondo gli esperti svizzeri pur rimanendo ancora disomogenea la crescita europea potrebbe riservare qualche sorpresa positiva, finalmente, per i paesi del Sud Europa e per l’Italia in particolare, anche perché la politica fiscale europea dovrebbe, per la prima volta dal 2010, tornare moderatamente espansiva mettendo fine ad una lunga fase di “repressione fiscale” sponsorizzata dalla Germania e adottata più o meno obtorto collo da tutti gli altri stati membri della Ue. La presenza di un significativo output gap (ossia di una crescita inferiore al potenziale, ndr), notano gli esperti, testimonia come la politica fiscale avrebbe potuto e forse dovuto essere utilizzata in modo più aggressivamente espansivo ma, se non altro, “è un inizio” a cui potrebbero aggiungersi ulteriori stimoli “quasi fiscali” da strumenti come il famoso, e per ora fumoso, piano Juncker.
Il 2016 potrebbe anche rivelarsi l’anno della fondazione di un “Tesoro europeo” che richiederebbe un passo in avanti politico significativo, dato che getterebbe le basi per una mutualizzazione del debito e della sua gestione (che finora la Germania ha rifiutato). Dati i tempi di simili processi difficilmente si avrebbero delle implicazioni pratiche in termini di crescita del Pil già quest’anno, ma potrebbero esservene negli anni a venire. Non ci resta che incrociare le dita, nonostante l’andamento tutt’altro che esaltante dei mercati di questi giorni forse qualche cosa si sta muovendo per modificare la struttura economica europea ed italiana, con possibili ricadute positive.