Gli esperti di Oxford Economics non hanno quasi fatto in tempo a lanciare l’allarme, sottolineando come “qualsiasi accelerazione della crescita, in Cina, che derivi da una valuta più debole, avverrebbe a spesa dei consumi” che ulteriori dati macroeconomici si sono premurati di mostrare come, per ora, l’effetto della recente svalutazione dello yuan non ha avuto alcun impatto positivo. L’indice dei direttori acquisti elaborato da Caixin Media e Markit Economics è infatti scivolato nella sua lettura preliminare per agosto a 47,1 punti, sempre più lontano dalla soglia di 50 punti che separano le fasi di contrazione dell’attività (valori inferiori alla soglia) da quelle di espansione economica (valori superiori alla soglia), dopo i 47,8 punti segnati a luglio e contro un’attesa media che indicava un rimbalzo sia pur minimo a 48,2 punti.
A questi livelli l’indice è tornato su valori che non si vedevano dalla crisi economico-finanziaria del 2008-2009 ed il fatto oltre a spaventare i mercati finanziari (con le borse emergenti che in tutto il mondo stanno proseguendo nella peggiore sequenza di perdite settimanali consecutive dal 2000) hanno portato a ulteriori cali del petrolio, ormai a poco più di 40 dollari al barile nel caso del Wti texano (e a meno di 45,5 dollari al barile nel caso del Brent del Mare del Nord), a sua volta intrappolato nella più lunga sequenza di ribassi settimanali consecutivi dal 1986. Ma perché i mercati temono così tanto un rallentamento dell’attività manifatturiera cinese e, indirettamente, dei consumi? Perché Pechino e i mercati emergenti finora erano state una delle poche valvole di sfogo delle economie europee, che ora rischiano di subire una nuova frenata.
Non solo: il petrolio basso, che in teoria può beneficiare paesi importatori netti come l’Italia, di fatto continua a tener basse le attese di inflazione (che rischia di rimanere attorno o sotto lo zero almeno per altri 12 mesi) e questo se in astratto è un bene, in concreto rischia di far rinviare almeno in parte le decisioni d’acquisto (perché attendendo si potrebbe comprare a prezzi inferiori), col rischio di pesare ulteriormente sull’economia mondiale che al momento, salvo qualche “isola felice” come la Gran Bretagna e gli Stati Uniti, ha un problema, drammatico, di crisi della domanda, non tanto di costi (o quantità) della produzione.
Ultimo ma non meno importante, se in Europa non si cambierà passo rapidamente, ora che anche la Grecia è capitolata e ha raggiunto un accordo coi creditori internazionali per un terzo “bailout” da 86 miliardi di euro in tre anni al prezzo di privatizzazioni (che ingolosiscono molti grandi gruppi europei, a partire da quelli tedeschi e francesi) e riforme “strutturali”, e non si passerà dalle misure di austerity ad un programma a sostegno della crescita, ad esempio col finanziamento di una serie di infrastrutture di portata comunitaria, il rischio che la crescita evanescente si ritrasformi in una recessione è concreto. Peccato che al riguardo dalla Germania non giungano segnali particolarmente positivi, anzi, con la stampa popolare che già accusa il cancelliere Angela Merkel di essere stata troppo arrendevole nei confronti di Alexis Tsipras (che da parte sua chiamando elezioni anticipate a settembre spera di rimanere in sella a dispetto dei “desiderata” della “troika”).
Così la frenata di Pechino, che la svalutazione dello yuan non sembra in grado di arrestare (anche perché è già stata imitata da Vietnam e Kazakhstan e potrebbe essere imitata da altri paesi ancora, a partire da Egitto e Turchia), fa paura perché indebolisce uno dei pochi motori di crescita sia reale sia finanziaria. Attraverso il rallentamento della crescita reale sono a rischio le aziende che maggiormente avevano puntato non solo sulla Cina ma sui mercati emergenti in genere, come, in Italia, il gruppo Fiat Chrysler Automobiles (molto esposto in Brasile), piuttosto che Bmw e Volkswagen (forti in Cina) e in generale tutti quei settori industriali che finora avevano tamponato una situazione di sovracapacità produttiva grazie proprio alla domanda dei mercati emergenti.
Il crollo dei mercati finanziari rischia invece di penalizzare le banche che avevano cercato di compensare i minori utili derivanti dall’attività creditizia ordinaria con l’attività di trading e i profitti derivanti dagli investimenti di portafoglio, facendo crescere ulteriormente sofferenze che in troppi casi restano ancora a livello di guardia. Nell’uno e nell’altro caso a pagare il conto rischiano di essere le classi più deboli, ma non è una novità: secondo il premio Joseph Nobel negli ultimi 30 anni si è assistito ad una sempre maggiore polarizzazione della ricchezza e mentre lo 0,1% più ricco della popolazione mondiale ha visto aumentare la sua ricchezza mediamente del 300%, il 90% più povero l’ha vista salire appena del 15% nello stesso periodo. Anche per questo sarebbe forse il caso di ripensare le politiche economiche e finanziarie, non solo in Europa, in modo da non dover pagare negli anni a venire lo scotto di uno sgonfiamento della bolla speculativa cinese gonfiatasi in questi anni e rimasta una delle poche “ciambelle di salvataggio” delle asfittiche economia del Sud Europa.