Banche sotto i riflettori in tutta Europa e ancora una volta si capisce come la partita in corso possa essere decisiva per i futuri assetti economici e politici del vecchio continente, ancora alla ricerca di un’unione che oltre che monetaria si faccia anche fiscale e pertanto politica, col rischio che il processo si interrompa e riprendano tensioni che portino ad una disgregazione già sfiorata poche settimane fa all’apice della crisi greca. Se in Inghilterra Royal Bank of Scotland ha avviato il suo percorso per tornare in mani private, in Francia il Credit Agricole deve subire un brusco stop al proprio piano per semplificare la complessa struttura di controllo e liberare capitale.
Andiamo con ordine: il Tesoro britannico ha collocato ieri una quota iniziale del 5,4% riducendo la partecipazione nel capitale di Rbs dal 78,3% al 72,9%. L’iniziativa si inquadra nella preannunciata volontà di riprivatizzare l’istituto di fatto nazionalizzato durante la crisi del 2008 per evitarne il fallimento, ma ha subito suscitato le proteste dell’opposizione laburista secondo cui il prezzo (pari a due terzi di quanto pagato all’epoca in cui la partecipazione venne rilevata, per complessivi 45,8 miliardi di sterline) sia risultato troppo basso. Il ministro “ombra” delle Finanze, il laburista Chris Leslie, ha accusato il governo di voler “svendere” Rbs mentre l’istituto è ancora in attesa di giudizio negli Stati Uniti per la vicenda delle vendite abusive di mutui sub-prime (per la quale il gruppo ha accantonato 2,1 miliardi di sterline, a fronte di una possibile multa che però gli analisti temono possa arrivare fino a 9 miliardi di dollari).
Il Cancelliere dello Scacchiere, ossia il ministro delle Finanze britannico (e possibile futuro leader dei conservatori), George Osborne, ha però difeso la manovra ribadendo che una vendita iniziale anche in perdita (il Tesoro ha incassato 330 pence per azione, raccogliendo in tutto 2,1 miliardi di sterline, contro i 502 pence pagati nel 2008 e contro i 339 pence della chiusura di stasera) è giustificabile a fronte degli obiettivi di risanamento che ci si è prefissi. A questo punto, dopo sette anni di continue perdite, Rbs potrebbe vedere un’ulteriore vendita di titoli in mano pubblica entro l’aprile dell’anno venturo, quando si chiude l’anno fiscale britannico. Nel frattempo si spera che il contenzioso con gli Stati Uniti sia alle spalle e che la banca sia riuscita a tornare in utile.
Chi ha subito uno stop nel suo processo di ristrutturazione della catena di controllo è invece la francese Credit Agricole, che solo ieri aveva annunciato una semestrale più che solida, con 920 milioni di euro di utile netto (dai 77 milioni di un anno fa, dato su cui peraltro aveva influito la crisi della portoghese Banco Espirito Santo, partecipato dal gruppo francese col 14,t6% di capitale) e 4,63 miliardi di euro di ricavi (+18% annuo). Numeri che non sono bastati a impedire un tracollo delle quotazioni oggi, col titolo che ha chiuso a Parigi a -10% abbondante poco sotto i 13 euro per azione, dopo che il vice direttore esecutivo, Xavier Musca, ha fatto sapere che l’istituto non ha ancora ricevuto il via libera dalla Bce in merito al suo piano di riordino societario.
“Le autorità non si trovano in una posizione dalla quale possano rispondere con chiarezza ad alcune nostre domande, dato che ciò ostacolerebbe un più ampio dibattito sull’armonizzazione in Europa”, ha precisato Musca. Al momento Credit Agricole SA (maggiore banca mutualistica in Europa e terza maggiore banca francese per capitalizzazione dietro a Bnp Paribas e Societe Generale) è controllata per il 54,7% dalla holding Sas Rue La Boétie, che fa a sua volta capo a 39 banche regionali e di cui Credit Agricole SA controlla il 25% del capitale. I colloqui con la Banca centrale europea sulla struttura societaria erano iniziati due anni fa, quando la Bce non era ancora diventata il supervisore bancario unico europeo.
Di fatto col piano, che potrebbe liberare da 2 a 9 miliardi di euro di capitale a quel punto restituibile, tramite maggiori dividendi o con un buy-back azionario, agli azionisti, starebbe cercando di trasferire alcune funzioni centrali della banca quotata (il Credit Agricole SA, appunto), sottoposta al controllo della Bce, alle 39 banche di credito regionali (che non sono, invece, sottoposte al controllo di Mario Draghi) come già segnalavano in un rapporto gli analisti di Jp Morgan Chase & Co. Se il piano venisse cassato definitivamente, vi è il rischio che si registri “una grande delusione per il mercato e solleverà dubbi circa i rischi normativi e di capitale”.
Non può tuttavia non saltare agli occhi che se Draghi desse il suo assenso senza alcuna obiezione, di fatto ridurrebbe la propria capacità di vigilanza su una delle maggiori banche francesi, guarda caso scontrandosi con un problema analogo a quanto ha in Germania, dove buona parte del credito transita per landesbanken regionali che sfuggono al suo controllo, e in parte in Italia (dove solo una manciata di grandi banche popolari sono sottoposte alla vigilanza della Bce, mentre la gran parte delle casse di risparmio e degli istituti popolari non rientrano nell’ambito di tali controlli).
Mentre in Inghilterra e in Francia i mercati si interrogano sulle prospettive legate al controllo del capitale e alle evoluzioni della normativa sulla vigilanza, in Grecia i problemi sono più “terra-terra”: riusciranno le banche greche a sopravvivere alla crisi? Riaperta ieri dopo cinque settimane di stop forzato, la borsa di Atene ha visto le quotazioni delle maggiori banche elleniche precipitare: National Bank of Greece stasera ha chiuso a 60 centesimi di euro per azione, contro gli 1,2 euro della chiusura del 26 giugno scorso, ultimo giorno di borsa aperta prima del lungo stop. L’istituto capitalizza ora 2,12 miliardi di euro, meno della controllata turca (al 99,8%) Finansbank che capitalizza 9,2 miliardi di lire turche, pari a 3,03 miliardi di euro.
La stessa National Bank of Greece avrebbe dovuto già ridurre lo scorso aprile la sua partecipazione a circa il 60% in base agli accordi presi con la Bce dopo aver fallito gli stress test dello scorso ottobre, ma ha poi preferito far slittare la vendita perché le valutazioni, complice anche la crisi attraversata dalla Turchia, non erano apparse soddisfacenti (il che, tra l'altro, la dice lunga circa la concreta possibilità che la Grecia proceda alla privatizzazione di 50 miliardi di euro di asset pubblici). Analogo destino è toccato ad Alpha Bank Ae (crollata da 32 a 16 centesimi per azione, capitalizzazione scesa a 2,03 miliardi), Piraeus Bank (da 40 a 20 centesimi per azione, capitalizzazione ormai sotto gli 1,2 miliardi di euro) e Eurobank Ergasias (da 14 a 7 centesimi, capitalizzazione ridottasi a 1,04 miliardi).
Nel complesso le quattro maggiori banche greche avrebbero un deficit di capitali di 19 miliardi cui si dovrebbe far fronte con ricapitalizzazioni per 25 miliardi previste dall’accordo siglato in luglio tra Atene e i creditori internazionali che ha per ora evitato l’uscita della Grecia dall’euro e il quasi certo fallimento dei suoi istituti il giorno dopo. Nel bene o nel male l’estate 2015 vedrà le banche europee protagoniste, spesso loro malgrado, della scena finanziaria e di quella politica, visti i legami che le operazioni di messa in sicurezza dei singoli istituti e dei diversi sistemi creditizi nazionali hanno con l’idea di un’unione europea che non si limiti al vincolo della moneta unica.
In questo scenario sarà importante vedere cosa succederà al settore bancario popolare italiano, dato alla vigilia di operazioni di concentrazione di ampia portata che potrebbero da un lato servire a rafforzare matrimonialmente gli istituti, dall’altro a evitare la perdita del controllo in favore di soggetti esteri. Dobbiamo essere tutti europei, ma se ogni nostro partner si tiene stretto il controllo di un asset strategico come il credito sarà meglio essere certi di ottenere reciprocità.