Saranno i modesti volumi tipici dei mercati estivi (oggi influenzati anche dalla chiusura di Londra per festività), sarà che nelle scorse settimane alcuni titoli erano già scesi di alcuni punti percentuali, sta di fatto che oggi Piazza Affari riesce a vestire la “maglia rosa” tra le borse europee con un rialzo del 2,3% trascinata da titoli come Mps, Bper e Banca Carige. A dare la scossa ai listini sono le parole pronunciate nel corso dell’annuale simposio di Jackson Hole, località del Wyoming dove ogni anno si riuniscono i principali banchieri centrali del mondo e dove quest’anno i riflettori erano puntati su Janet Yellen, numero uno della Federal Reserve, e su Mario Draghi, suo equivalente ai vertici della Banca centrale europea. Entrambi non hanno deluso le attese, dicendo ciò che i mercati volevano sentirsi dire.
La Yellen si è in verità limitata a ripetere che la banca centrale americana conta di terminare il “tapering” (rallentamento degli acquisti di bond sul mercato) di fatto ponendo fine al lungo programma di quantitative easing entro il prossimo autunno, rispettando la tabella di marcia annunciata (e puntualmente ribadita mese per mese) ormai da un anno. Dopo di che, forse, sarà ora di tornare a rialzare i tassi sul dollaro: niente di straordinario, probabilmente si inizierà con un quarto di punto percentuale facendo abbandonare “quota zero”, ma non è detto perché, ha ammesso la Yellen, la ripresa economica continua ad apparire molto più deludente e incerta di quanto non sembri a prima vista, soprattutto per quel che riguarda il mercato del lavoro. Una dichiarazione che agli occhi di un europeo (e di un italiano in particolare) può sembrare paradossale visto i differenti tassi di disoccupazione disoccupazione (negli Usa stiamo ormai al 6,2%, in Ue media al 11,5%, in Italia al 12,3%), ma la Yellen ribadisce: a cinque anni dalla fine ufficiale della recessione, negli Usa, “il mercato del lavoro deve ancora riprendersi completamente”.
Mario Draghi ha invece approfittato dell’occasione per ribadire che la politica monetaria, in mano alla Bce, “può e deve giocare un ruolo cruciale” anche dal lato della domanda, stimolando quell’aumento dei prezzi che sta sempre più riducendosi nel vecchio continente sino a diventare, nel Sud Europa, negativo. La deflazione è il nemico da combattere e la Germania (Bundesbank in testa) il paese membro a cui farlo capire perché la smetta con una “cura letale” fatta finora solo di repressione fiscale e richieste di riforme “strutturali” che dovrebbero ridurre la spesa pubblica e il debito. Cosa che come noto non basterà a far uscire l'Italia dal pantano in cui è finita da anni in assenza di crescita del Pil per la semplice ragione che persino agli attuali tassi d’interesse, sui minimi storici (i Btp decennali stasera hanno chiuso al 2,47% con uno spread contro Bund in calo all’1,52%), il costo medio del debito pubblico accumulatosi (2.166 miliardi a fine luglio di cui 1.822 rappresentati da titoli di stato) è tuttora poco sotto al 4% (dovrebbe toccare il 3,8% il prossimo anno), motivo per cui il rapporto debito/Pil, calcolato sulle variazioni nominali del denominatore, non può che salire tanto più marcatamente quanto minore crescita reale e minore inflazione si registrano.
Ancora una volta Draghi ha ribadito che la Bce è “pronta” ad attivare misure “non convenzionali” (il QE da tempo allo studio e che dovrebbe consistere nell'acquisizione da parte della stessa Bce di crediti cartolarizzati più che di titoli di stato) se sarà necessario e che possa esserlo sembra evidente, anche se già ora l’attesa per la prossima conclusione (entro fine ottobre) del QE americano e per l’avvio (forse in contemporanea, forse poco dopo) del QE europeo sta facendo recuperare terreno al dollaro, dando un minimo di respiro alle esportazioni del vecchio continente. Più in là di così Draghi non si è spinto, tornando anzi a ribadire che da sole le politiche monetarie o fiscali non possono “sostituire riforme strutturali” che alcuni paesi (uno a caso: l’Italia) avrebbero dovuto fare anni fa e non hanno mai fatto a causa di una classe dirigente, politica ed economica, inadeguata ma evidentemente molto rappresentativa del Paese, visto la sua persistenza ai vertici e la difficoltà che i giovani incontrano, anche più che all’estero, ad assumere un ruolo attivo sia sul piano politico-sociale sia su quello economico.
Anche in questo caso tutto vero, ma si tratta di intendersi su quali siano le riforme strutturali prioritarie: quelle realmente indispensabili, ossia quelle culturali (maggiore apertura alla concorrenza e all'innovazione, meno burocrazia, più occasione di formazione per i giovani, nuovo modello del credito, riforma della giustizia) sono quelle che richiedono tempi più lunghi per la loro attuazione e per produrre risultati, quelle che si vocifera si vorrebbero attuare a breve (tagli dei costi della politica, revisione delle pensioni, redistribuzione del carico fiscale) non è detto siano realmente in grado di farci recuperare stabilmente il terreno perduto a livello di competitività con altri stati. Un nuovo accento si è però udito, e pare importante, nelle parole di Draghi quando ha accennato al problema occupazionale, che si sta rivelando più persistente di quanto si potesse prevedere e per questo minaccia la coesione sia a livello comunitario, sia di singoli Paesi: “Tutti i Paesi dovrebbero avere interesse a raggiungere elevati livelli di occupazione” ha concluso Draghi, “visti i costi molto alti di uno scenario avverso”.
A me pare lapalissiano e poichè l’ex Governatore di Banca d’Italia è tutto meno che uno sprovveduto mi sembra evidente che stia parlando a Sparta (la comunità finanziaria presente a Jackson Hole) perché Atene (ossia la Germania) capisca. Come si puà intuire anche dai crescenti “mal di pancia” della Francia (finora uno dei paesi più dirigisti d'Europa e che finora ha goduto, anche più del dovuto, del “dividendo euro” ma ora stenta a ritrovare la via della crescita e inizia a mostrare insofferenza per la politica di austerità fiscale europea), il tempo sembrerebbe maturo per un nuovo patto europeo, in cui riforme pur necessarie siano varate, nei tempi e nell’ordine più opportuno per ciascuno stato membro, in cambio di una minore rigidità monetaria e fiscale da parte della Germania. Un’unione ha senso solo nella misura in cui tutti gli stati che vi partecipano ottengono dei vantaggi dalla loro adesione e Berlino di vantaggi ne ha finora ottenuti e non pochi, a partire dagli anni seguiti alla riunificazione. Forse è ora che conceda ad altri di ottenere a loro volta dei vantaggi in modo da far ripartire una crescita meno che asfittica in tutta Europa. Cosa che, evidentemente, non assolve ogni singolo stato (e ogni singolo settore economico) dal doversi fare un serio esame di coscienza e dal dover cercare di introdurre innovazioni culturali profonde, così da poter tornare a progettare il futuro e dare una prospettiva a tutti i cittadini europei e non solo ad alcune fasce di popolazione o ad alcuni paesi.