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La Bce non vorrebbe una “generazione perduta”, ma contribuisce a crearla

Mario Draghi è preoccupato: le banche europee restano deboli e poco redditizie e quindi incapaci di alimentare la ripresa economica. Si rischia una “generazione perduta”, ma la stessa politica monetaria della Bce, involontariamente, rischia di far avverare questa infausta previsione…
A cura di Luca Spoldi
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Mario Draghi, numero uno della Bce, è preoccupato e non manca occasione per ribadirlo. Una ripresa che continua ad apparire evanescente in gran parte dell’Europa, ma in particolare in Italia e Francia, ed una deflazione che non molla, nonostante i quasi 1.700 miliardi di bond già acquistati nell’ambito del programma di quantitative easing della stessa Bce, obbligano l’istituto centrale europeo a valutare ulteriori stimoli monetari nel tentativo di far ripartire i prezzi e la produzione. Ma continuare a pompare liquidità e acquistare titoli sul mercato, ovvero tagliare ulteriormente i tassi debitori ha un costo elevato per il sistema bancario del vecchio continente, dato che di mestiere le banche prestano soldi a interesse e farlo a interessi sempre più bassi (per periodi di tempo sempre più lunghi) significa non poter guadagnare abbastanza.

Discorso tanto più vero per il sistema bancario italiano, rimasto arroccato in difesa di una gestione del credito che definire “bizantina” come fanno alcuni è perfino generoso. Già poco redditizie, le banche italiane vedono ormai da anni solo due asset continuare a crescere nei propri bilanci: i titoli di stato (che ormai non rendono quasi nulla ma non si possono vendere perché servono come covenant per farsi dare liquidità a tasso zero dalla Bce) e Npl (non performing loan), in sostanza crediti “marci” che sono il frutto di anni di una gestione dell’erogazione del credito volutamente incapace di distinguere il debitore “buono”, che coi soldi della banca deve finanziare un’attività sana e possibilmente poco esposta alla crisi, dal debitore “cattivo”, che coi prestiti ricevuti ha magari comprato capannoni industriali o magazzini che sono sempre più vuoti e non rendono nulla (e sui quali, anzi, si devono pagare imposte).

Aggiugete che, specie nel mondo delle banche locali, popolari in primis, presidenti, amministratori delegati e consiglieri di amministrazione si sono spesso concessi prestiti e fidi con eccessiva disinvoltura, che soci-dipendenti hanno fatto passare assunzioni e promozioni in ottica clientelare, che in qualche caso anche di fronte a comprovati esempi di mala gestione si sono concesse laute liquidazioni e si è rinunciato a ogni possibile azione risarcitoria a fronte di danni di decine o centinaia di milioni di euro ed il quadro è quasi completo e decisamente negativo per le banche e pertanto per le imprese italiane.

Non è un caso se in Italia il credito sta ancora restringendosi o comunque abbia solo smesso di scendere ma non risalga: secondo Banca d’Italia a fine gennaio i prestiti alle imprese erano ancora in calo dello 0,9% annuo, quelli alle famiglie in crescita dello 0,8% grazie al credito al consumo, secondo l’Abi che mette assieme famiglie e imprese i prestiti sarebbero rimasti praticamente stabili, +0,04%. Ormai lo sanno anche le mosche sulla carta moschicida: le banche italiane oltre che poco redditizie e ancora poco propense a concedere credito (che del resto non potrebbe registrare tassi particolarmente esuberanti, essendo ancora modesto il recupero della domanda interna) soffrono del peso delle sofferenze su crediti causate dalla malagestione di cui sopra.

Ora: non potendosi varare una “bad bank” di sistema il governo a dicembre è riuscito in qualche modo a mettere una pezza per le quattro banche regionali “risolte” ma ha dovuto chiedere aiuto al sistema bancario che ha anticipato i versamenti al Fondo di risoluzione per 3,6 miliardi prelevando anticipatamente i previsti versamenti (500 milioni l’anno) fino al 2018. Cosa succederebbe se gli aumenti di Banco Popolare (1 miliardo di euro), propedeutico alle nozze con Bpm, o di BpVi (1,75 miliardi) o di Veneto Banca (un altro miliardo di euro) non dovessero trovare adesioni sul mercato? Che le banche che si sono impegnate a garantirli (rispettivamente Mediobanca, Unicredit e Intesa Sanpaolo) si troverebbero a dover anticipare di tasca propria i capitali, in attesa di rivendere le azioni alla prima occasione possibile.

Non solo: valorizzando i crediti “marci” ceduti dalle quattro banche regionali alla bad bank al 17,6% del valore nominale, di fatto si è fissato un benchmark per tutti gli operatori che vorranno avanzare proposte d’acquisto per Npl di altri istituti. Non a caso sia il fondo Apollo nel caso dei Npl di Banca Carige sia Fortress (interessata ai Npl di BpVi) stanno tarando le proprie offerta attorno a quel valore che del resto non è calato dal cielo (anzi, dalla Bce) ma si inserisce nel range del 15%-20% di valutazione rispetto al valor nominale di questi asset visti nelle operazioni concluse nel corso del 2015. Chi compra questi crediti “marci” spera di guadagnarci gestendoli meglio di quanto non abbiano fatto le banche che li hanno originati, la stessa bad bank a cui sono stati conferiti quelli delle quattro banche regionali risolte dovrebbe riuscire così a ripagare a medio termine il sistema bancario italiano per lo sforzo effettuato.

Il problema vero alla fine è che tutti questi interventi, comunque non più a lungo rinviabili a lungo, rischiano di sottrarre ulteriori risorse sia in termini di capitali sia di attenzione al rilancio e ristrutturazione dell’attività creditizia “ordinaria”. Le banche italiane rischiano cioè di perdere ancora un anno o due (la Bce non a caso parla di tassi attorno ai livelli attuali fino al 2018) prima di poter tornare a dare un supporto alla crescita. E senza supporti da un lato e con la scarsa voglia di aprire il mercato a nuovi operatori dall’altra, l’economia italiana rischia di impantanarsi nuovamente in una lunghissima rincorsa alla crescita che continuerà a mancare per anni.

Una “giapponesizzazione” dello scenario economico-finanziario che può essere utile solo a chi già ha una poltrona ben remunerata e vuole solo arrivare alla pensione (o a pingui liquidazioni) senza rischiare ulteriori incidenti di percorso. Ma che rischia di pesare ancora una volta su imprese e famiglie italiane, in particolare quelle più giovani. Draghi ha ragione quando stigmatizza di rischio di una “generazione perduta” se le banche i governi non agiranno, peccato che il suo stesso operato rischi di contribuire all’avverarsi di questa infausta previsione.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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