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La Bce mette i paletti al matrimonio Bpm-Banco Popolare

La Bce mette i paletti alla fusione alla pari tra Bpm e Banco Popolare: è il segnale che l’era dei salotti buoni e dei mercanteggiamenti politici è alle spalle e il sistema creditizio italiano (ed europeo) deve prenderne atto. Attenzione: questo significa anche che dovrete tener d’occhio i conti della vostra banca per non rischiare perdite…
A cura di Luca Spoldi
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Le banche italiane, abituate da decenni ai salotti buoni, ai mercanteggiamenti politici, alle logiche sindacali e clientelari interne, non sembrano aver ancora voltato il calendario, e sì che già a dicembre, prima che entrassero in vigore i nuovi poteri della Bce di vigilanza bancaria unica europea e il collegato dispositivo afferente alle risoluzioni degli istituti in crisi tramite procedura di “bail in”, il governo italiano aveva parzialmente anticipato i tempi “risolvendoquattro banche minori, ormai prive dei requisiti per rimanere sul mercato. Sempre il governo italiano, provando a giocare d’anticipo, ha varato più di un anno fa una riforma del settore bancario popolare tesa ad agevolare un adeguamento delle bizantine regole di voto capitario e un rafforzamento di patrimoni il più delle volte gracili e fin troppo esposti alla marea montante delle sofferenze, ma ad oggi ben pochi frutti questa riforma ha portato con sé.

L’apparente stasi non deve ingannare: si tratta, in realtà, dell’ennesima battaglia di retroguardia con cui un sistema ampiamente deficitario sia sul piano dei risultati economici sia della tutela del risparmio privato sta cercando di tutelare se stesso, o meglio i suoi vertici. Ma le cose sono destinate a mutare inesorabilmente, come hanno già scoperto i soci di Veneto Banca e di Banca popolare di Vicenza, costretti a lanciare pesanti aumenti diluitivi sotto la minaccia di veder attivata la procedura di “bail in” d’imperio. Se qualcuno non avesse ancora capito, gli sceriffi di Mario Draghi hanno ulteriormente chiarito come stanno le cose e con una letterina recapitata ai vertici di Bpm e Banco Popolare, da mesi impegnati in un corteggiamento inizialmente a tre, poi divenuto a due dopo l’uscita di scena di Ubi Banca, pare abbiano posto precise condizioni per dare il proprio, necessario, assenso alla fusione “alla pari”, utile soprattutto a salvare le poltrone a manager e consiglieri d’amministrazione.

Quali siano tali condizioni non è dato ufficialmente sapere, ma ufficiosamente si dice da tempo che gli scogli rimasti siano sostanzialmente due: la necessità di adeguare la governante di Bpm (rimasta appunto ferma al voto capitario per l’ostruzionismo dei soci-dipendenti che da anni condizionano le assemblee societarie e le relative deliberazioni) e la necessità di ridurre in modo drastico e in tempi rapidi le sofferenze di Banco Popolare. Per superare quest’ultimo scoglio la Bce avrebbe proposto di aumentare il capitale del soggetto che nascerebbe dalla fusione di 1,5 miliardi di euro; in alternativa qualcuno negli scorsi giorni ha provato a individuare asset cedibili da Banco Popolare indicando Agos Ducato (Banco Popolare è azionista al 39% con un valore di carico di 700 milioni), Aletti Sgr (che ha masse gestite per 17 miliardi di euro circa, cui potrebbe corrispondere un valore di circa 500-550 milioni) e una quota del 7% di Anima Holding (di cui Banco Popolare è socio al 16,85% con un valore di carico di 132 milioni, ma che ai prezzi di borsa vale 320-330 milioni).

Di aumentare il capitale, hanno già fatto sapere i vertici dei due istituti, non se ne parla e piuttosto l’operazione salta. Siccome i due istituti hanno entrambi superato lo scorso anno (a differenza di Veneto Banca e Banca popolare di Vicenza) gli stress test Bce (Srep) basati sul coefficiente Common Equity Tier 1, che per Bpm è risultato pari all’11,44% contro il 9% richiesto e per il Banco Popolare al 13,4% (contro il 9,55% richiesto), la Bce non può agire d’imperio, ma può comunque porre prerequisiti senza i quali l’operazione, destinata a fare da apripista a tutte le future fusioni bancarie italiane ed europee, non riceverebbe il necessario via libera. Se dunque l’operazione finisse su un binario morto cosa succederebbe?

Per Bpm si parla di un ritorno in scena di Andrea Bonomi, cui fa capo il fondo di private equità Investindustrial e che aveva già tentato pochi anni fa, senza successo, di accelerare la trasformazione in Spa di Bpm. Bonomi andrebbe a sondare altri potenziali candidati, da Banca Carige, dove i Malacalza sono alla ricerca di nuovi vertici e di uno o più matrimoni che facciano integrino l’istituto ligure con altre popolari in aree “ricche” come la Lombardia (Bpm), l’Emilia Romagna (Bper) e forse l’estero (attraverso Cariparma, controllata italiana di Credit Agricole), a Ubi Banca, che però potrebbe anche provare a riavviare trattative mai veramente decollate proprio con Banco Popolare. Sia come sia, il sistema bancario italiano, popolare e non, deve prendere atto, come peraltro dovranno fare anche le altre banche europee, che nell’era dei poteri militari della Bce di strapuntini per l’amico politico di turno e di finanziamenti “a babbo morto” per l’amico imprenditore di turno, le cui sofferenze ricadevano direttamente o indirettamente sullo stato, ce ne saranno sempre meno, se mai ve ne saranno.

O meglio, a rendersene conto dovranno essere i risparmiatori italiani, perché operazioni “di sistema” come fu l’accasamento di Banca di Roma-Capitalia in Unicredit o come qualcuno prefigura in un eventuale intervento di Cdp e Fontazioni bancarie in Mps (in alternativa indicata come “preda” di Intesa Sanpaolo, che da parte sua ha già fatto più volte capire che non è affatto interessata a recitare il ruolo del cavaliere bianco), non potranno più godere delle garanzie statali e dunque dovrebbero passare per una preventiva resa dei conti che comporterebbe ricapitalizzazioni più o meno pesanti, cessioni di asset, svalutazioni di crediti, forse anche conversioni forzose di obbligazioni in azioni e abbattimento del valore dei titoli, in base alla gravità della situazione che di volta in volta emergerà.

A capire dove il vento sta girando è la borsa di Milano, dove il titolo Banco Popolare chiude la giornata in calo del 14%, Bpm del 5,5%, mentre Mediobanca (storicamente vicina a Bonomi) perde il 5,6% e Bper, a sua volta in bilico tra il desiderio di rimanere autonoma e la necessità di rafforzarsi, il 6,6%. Così è, se vi pare: nell'era del bail in la Bce, che si è data la mission di giungere ad progressivo rafforzamento e riorganizzazione delle banche del vecchio continente, così da renderle competitive rispetto alle concorrenti americane e asiatiche, procederà ad una grande ridistribuzione di ricchezza, non basandosi su regole morali o sociali, bensì sull'educazione finanziaria dei risparmiatori: chi capirà per tempo che deve tenere d'occhio i conti della propria banca muovendosi di conseguenza senza regalare fiducia ad occhi chiusi si ritroverà alla fine con istituti più sani, chi non lo farà si troverà a conteggiare perdite più o meno pesanti.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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