Che si preparasse una riunione tutt’altro che semplice a Vienna lo si era capito dalle dichiarazioni giunte ancora prima che si aprisse ufficialmente la riunione dell’Opec da Riad e Teheran. Arabia Saudita e Iran, paesi divisi su tutto a partire dalla rivalità geopolitica nata sin dai tempi della rivoluzione iraniana e che ha portato, da ultimo, i due contendenti su opposte barricate nel conflitto in corso in Siria (l’Iran sciita combatte l’Isis per sostenere il regime “amico” di Assad, l’Arabia sunnita spalleggia l’Isis per il motivo opposto), si sono trovate di comune accordo nel sostenere la necessità di non tagliare la produzione neppure di un barile al giorno.
Riad vuole infatti colpire i produttori di shale oil americani (ma certo non è dispiaciuta del peso che la sua mossa pone all’economia russa, visto che Mosca è a sua volta alleato storico di Assad) ed è disposta, visto che il suo petrolio viene estratto ad un costo che è una frazione di quello della maggior parte dei suoi concorrenti. Teheran d’altra parte non intende rinunciare a far ritornare la propria produzione ai livelli pre-sanzioni, ossia almeno un milione di barili al giorno, e si prepara a tornare a esportare dal prossimo anno. Così la riunione è finita senza la fissazione di un tetto ufficiale e dunque la conferma che ogni paese potrà fare come meglio crede.
Il che sostanzialmente comporta il mantenimento (se non l’incremento) dell’attuale produzione di 31,5 milioni di barili al giorno. Inevitabilmente il prezzo del greggio è tornato a scendere sui 40 dollari al barile. Questo da una parte porta un ulteriore sostegno ad econome come quella italiana fortemente importatrici di petrolio e gas e dunque molto sensibili al costo dell’energia e del carburante per trasporti, dall’altra crea una potente spirale deflazionistica che rischia di vanificare almeno in parte gli sforzi fatti dalla Bce di Mario Draghi per far ripartire l’inflazione. Cerchiamo di chiarire meglio e valutare con maggiore precisione quanto valgano questi due effetti.
Uno studio di Natixis aveva già mostrato lo scorso giugno come il peso dell’energia in Italia fosse pari al 10% del Pil (il dato si mantiene pressoché costante dal 2012) e come alla fine del primo trimestre di quest’anno il calo dei prezzi del greggio, da 53 a 47 dollari al barile (con un minimo di 43 dollari), riducendo l’inflazione, avesse consentito una crescita dei redditi reali equivalenti ad uno 0,8% annuo di Pil e di altrettanto del risparmio reale, mentre il calo dell’euro (legato al quantitative easing della Bce) si era “rimangiato” il 55% di tale effetto, peraltro consentendo l’incremento dell’1,2% annuo dell’export italiano, sempre in termini di punti di Pil.
Visto che nel frattempo non sono mutate le condizioni strutturali né in Italia né in Europa, è prevedibile che un petrolio che si mantenesse sugli attuali livelli o poco oltre (40-42 dollari al barile) possa avere un ulteriore impatto di analoga entità da un lato come detto sostenendo la ripresa che si trova ad affrontare da qualche tempo le incognite legate al rallentamento dei mercati emergenti, Cina in testa, e le tensioni nate a seguito degli attentati terroristici di Parigi (su cui anche Mario Draghi, ieri, ha rinunciato ad esprimersi ammettendo di non saperne al momento valutare i potenziali contraccolpi macroeconomici), dall’altro prolungherà la fase di crescita dei prezzi vicina a zero almeno in una parte di Eurolandia.
Il risultato potrebbe essere che le stime di inflazione appena riviste ieri dalla Bce potrebbero essere sovrastimate per il 2016 e forse non solo: il quantitative easing dovrà essere rivisto ulteriormente nei prossimi mesi? Non è da escludere e questo spiegherebbe perché Draghi sembri essersi voluto lasciare qualche cartuccia ancora da sparare, considerando anche che i componenti vicini al blocco tedesco della Bce non saranno certo stati entusiasti di rilassare ulteriormente una politica monetaria che hai loro occhi crea già più problemi (ad esempio ai fondi pensione, che letteralmente non sanno più dove investire la liquidità per ottenere decenti ritorni a lungo termine) di quanti non ne risolva (visto che l’accesso al credito non è certamente un problema per le banche e le aziende del Nord Europa).
Insomma: dopo la Bce ha deluso anche l’Opec e a questo punto non resta che vedere cosa deciderà di fare Janet Yellen la prossima settimana. Per la verità come hanno confermato anche oggi i dati del mercato del lavoro statunitense (211 mila ulteriori nuovi occupati creati il mese scorso, contro attese attorno a 200 mila) la Yellen non ha molte opzioni di fronte. Deve aumentare i tassi ufficiali anche solo di uno 0,25% per non perdere di credibilità, evitare di rimanere “dietro la curva” e, semmai, crearsi a sua volta un minimo di margine di manovra ove mai nei mesi a seguire il dollaro dovesse rivelarsi troppo forte per la ripresa Usa da un lato e per l’inflazione europea dall’altra (dato che, essendo espresse in dollaro, le quotazioni del petrolio e della principali materie prime di solito si muovono in direzione opposta a quella del biglietto verde).