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Opinioni

L’Italia deve guardare alla Grecia o alla California?

In Italia appassionano la crisi greca e le “sparate” di Alexis Tsipras, mentre negli Stati Uniti un venture capitalist punta su start up legate alla realtà virtuale. E’ l’ultimo esempio dell’ampio gap culturale che resta tra il bel paese e gli Usa…
A cura di Luca Spoldi
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Le borse europee (ma anche Tokyo e Wall Street) aprono la settimana con nuovi ribassi, complici deboli dati commerciali cinesi che tornano a instillare qualche dubbio sulla tenuta della crescita mondiale “extra-Usa” e le reazioni negative, come ampiamente prevedibile, allo stallo sulla crisi russo-ucraina e alle “sparate” di Alexis Tsipras (in parte corrette nel pomeriggio) circa la “determinazione” con cui il governo greco si opporrà a proseguire con le misure di austerity concordate dai precedenti governi di Atene a garanzia dei prestiti ricevuti dalla troika Ue-Bce-Fmi (cosa che significherebbe che il governo greco vuol continuare a far finta, almeno di fronte al proprio elettorato, di poter finanziare il proprio welfare state a spese di quello degli altri paesi dell’area dell’euro minacciando altrimenti l'uscita dall’eurozona).

Nel frattempo, complice anche la presentazione a Milano di una “carta” per nutrire il pianeta, crsce la voglia di provare a passare dalla retorica ai fatti in tema di crescita e uguaglianza economico-sociale. L’Italia in quanto a produzione teorica al riguardo non sembra temere la concorrenza di alcuno al mondo, ma per quel che riguarda i risultati è difficile che un qualsiasi governo possa appuntarsi una sia pur piccola medaglietta, quanto meno nell’ultimo ventennio abbondante, quando con la caduta del muro di Berlino (e conseguente riunificazione della Germania da un lato e dissoluzione dell’Unione Sovietica dall’altra) prima e l’avvento dell’economia globale (con l’emergere di paesi come Cina, Brasile o India sulla scena mondiale) poi lo scenario macroeconomico e geopolitico è cambiato drasticamente rispetto al ventennio Settanta-Ottanta.

Se guardiamo alle (poche) scelte e ai (molti) dibattiti fatti non si può non notare come in Italia si sia rimasti fermi a un’impostazione del secolo scorso, che vede naturale la partecipazione dello stato nell’arena economica non solo in veste di arbitro ma anche di giocatore, a prescindere dalla possibilità che ad occuparsi di sviluppare un'attività sia il settore privato, sia pure entro ben definite direttive di politica economica e di perequazione sociale. Risultato: in un paese ex contadino già culturalmente arretrato e dove l’innovazione è sempre stata vista con sospetto, i lavoratori hanno cercato di tutelare i propri diritti attraverso organizzazioni (sindacati, ma anche associazioni e albi professionali) in grado di contrapporsi agli imprenditori privati (a loro volta organizzati) facendo leva anche sull’apporto della politica e dello stato come “stanza di compensazione” su cui scaricare costi sociali (ma a cui raramente girare eventuali benefici economici), con tacito accordo della controparte.

Dall’altra parte dell’Atlantico un approccio maggiormente liberista (anche se non sono mai mancati interventi pubblici e relazioni più o meno incestuose tra politica e affari) ha favorito lo sviluppo di un ambiente favorevole alla crescita dell’imprenditoria ad ogni livello, da quello micro a quello delle grandi multinazionali. Così oggi gli Stati Uniti restano all’avanguardia in tecnologie che stanno cambiando interi settori, spesso sopprimendo decine di milioni di posti di lavoro in tutto il mondo. Un inferno? Certamente per chi subisce tale rivoluzione “disruptive”, ma per chi la immagina e la gestisce si tratta semmai di nuove opportunità, che però non sono destinate a lavoratori generici o produzioni “labour intensive” tipiche dei settori maturi (e della classe media secondo un'accezione novecentesca), ma per lavoratori sempre più specializzati e aziende operanti in ambiti “capital intensive” un tempo ritenute appannaggio di una “elite”.

A corollario di questo modello negli Stati Uniti si sono dovuti sviluppare un mercato del lavoro estremamente mobile, che in realtà tutela sia l’azienda sia il lavoratore qualificato (nella Silicon Valley è più facile che a dettar legge sia il lavoratore esperto che non l’azienda), e un mercato dei capitali altrettanto flessibile ed in grado di offrire servizi dalla piccola startup alla grande corporation, nel primo caso intervenendo con operatori specializzati in venture capital (che con gli anni stanno allungano il proprio orizzonte temporale d’investimento dai 3-4 anni degli anni Novanta agli 8-10 anni attuali), nel secondo con strutture bancarie più tradizionali che dopo la crisi del 2008 si stanno a loro volta trasformando scorporando alcune attività a maggior rischio per tornare a concentrarsi sulle attività bancarie “classiche”, sempre però cercando di risolvere ogni volta in modo più efficiente le esigenze della clientela.

Morale della favola: mentre 60 milioni di “economisti” dibattono nei bar di mezza Italia cosa dovrebbe o non dovrebbe fare Alexis Tsipras, il più delle volte senza rendersi conto di quanto l’Italia rischi al riguardo, e mentre da noi sia il mercato del lavoro sia quello dei capitali faticano a tenere il passo con la mutata realtà del paese, negli Stati Uniti ogni giorno investitori provano a finanziare nuovi progetti, come ha deciso di fare ad esempio Rothenberg Ventures, società di venture capital californiana specializzata in finanziamenti “seed” (ossia destinati ai primi anni di vita di una startup) nata solo due anni or sono dall’allora 28enne da Mike Rothenberg con 5 milioni di dollari che da allora ha iniziato a finanziare una sessantina di startup (tra cui AltspaceVR, Matterport e MergeVR).

Rothemberg Ventures, infatti, da inizio febbraio ha dato vita a River, un “acceleratore” che ogni tre mesi seleziona una decina di startup che sviluppano tecnologie legate alla realtà virtuale (per la prima edizione ne sono state scelte 13), dando a ciascuna 100 mila dollari da investire, fornendo spazi di coworking, reti di contatti, presentazioni a investitori potenziali e programmi di mentorship che coinvolgono nomi noti nel settore della realtà virtuale come Philip Rosedale, fondatore di Linden Lab (sviluppatrice di Second Life) e High Fidelity, Tony Parisi (fondatore di Third Eye), Matt Bell (fondatore di Matterport ), Eric Romo (fondatore di AltspaceVR), David Holz (fondatore di Leap Motion) o Brad Herman (responsabile DreamLab presso Dreamworks Animation).

Piccola curiosità: tra i mentor di River c’è anche un italiano, Stefano Corazza (fondatore di Mixamo), mentre per ora non ci sono startup tricolori (in compenso sono già state finanziati team francesi e spagnoli, oltre che giapponesi e americani). Nel caso voleste smettere con l’hobby nazionale delle chiacchiere a vuoto e provare a cogliere l’occasione al balzo, sul sito di Rothenberg Ventures ci si può già candidare (entro il prossimo 25 maggio) alla seconda edizione di River, in calendario da luglio a settembre. Forse non cambierà il destino dell’euro, ma potrebbe cambiare il vostro. Come detto tante volte la crisi italiana è anche e soprattutto una crisi culturale, sarebbe ora di iniziare ad affrontarla, partendo dal basso.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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