L’Italia che prima o poi uscirà dalla crisi, si spera in modo più convincente di come sembra al momento, potrà essere migliore o peggiore di come nella crisi stessa ci è entrata, ma di certo sarà diversa. Se gruppi come Fiat e Pirelli hanno da tempo preso la strada dell’estero, la prima separando le attività dell’automobile (aggregate a quelle del gruppo statunitense Chrysler, salvo il polo del lusso) da quelle prettamente industriali (probabilmente destinate a ulteriori acquisizioni e fusioni negli anni a venire per un problema dimensionale rispetto ai principali concorrenti mondiali), la seconda tornando al “core business” del pneumatico dopo una lunga e poco fortunata stagione di diversificazione in altri business come Telecom Italia, cosa che non ha peraltro evitato ulteriori evoluzioni dell’azionariato col peso dei soci italiani progressivamente in calo, ulteriori matrimoni sia in ambito nazionale sia oltre frontiera sembrano alle porte a partire dal settore finanziario, con inevitabili ripercussioni anche in altri settori visto le numerose situazioni di crisi che le banche si trovano a dover gestire da anni.
In ambito bancario da un lato la riforma del settore popolare, dall’altro la grave crisi in cui sono caduti alcuni istituti, primi tra tutti Mps e Banca Carige, ha drasticamente mutato il quadro di riferimento. In questo giro mentre Unicredit e Intesa Sanpaolo sono impegnate a cercare alleanze in ambiti come il wealth management e il private banking (la prima avendo unito la controllata Pioneer Investments con le attività di wealth management di Banco Santander, la seconda avendo già annunciato di voler cercare un partner da 10-15 miliardi di valore per poter procedere ad un accorpamento delle attività della divisione di private banking del gruppo, cui fa capo Banca Fideuram), con l’intenzione di mantenere il controllo su tali attività dato l’apporto che esse generano in termini di utili e margini, ben superiori a quelle delle attività bancarie tradizionali, saranno Banca Carige e Mps ad essere al centro dei giochi (senza trascurare un possibile matrimonio in salsa veneta tra Veneto Banca e Banca popolare di Vicenza).
Sull’istituto senese, che oggi ha avviato un aumento iperdiluitivo da 3 miliardi di euro (il titolo “ex diritto” ha visto in borsa il prezzo salire dell’11,28% a 2,14 euro mentre i diritti sono crollati del 18,41% a 6,14 euro, movimenti ampiamente previsti e che potrebbero non essere ancora terminati) pesa come un macigno l’opinione espressa in una lettera inclusa nella documentazione relativa all’aumento stesso dal presidente della Bce, Mario Draghi, secondo cui l’operazione non basterà a mettere definitivamente in sicurezza la banca che deve pertanto cercare una “soluzione definitiva ai suoi problemi strutturali”. Soluzione definitiva che avrà le sembianze di un passaggio del controllo ad un istituto straniero o italiano? Non si sa, anche se è almeno dal 2011 che il mercato scommette periodicamente sui nomi (si è andati da Mediobanca al Banco Santander, da Ubi Banca, che però potrebbe essere tentata da un matrimonio “alternativo” con Banco Popolare, a Bnp Paribas, che in Italia controlla già Bnl) di potenziali acquirenti del Monte.
Quanto alla partita di Genova, Malacalza Investimenti ha annunciato di aver acquistato dal socio francese Bpce (Banques Populaires et des Caisses d’Epargne, finora titolare del 9,762% del capitale di Banca Carige) un altro 4,662% del capitale a 6,74 euro per azione, per complessivi 32,7 milioni, portandosi così dal 10,271% al 14,934% di capitale, mentre Bpce scende al 5,1%. L’intenzione dei Malacalza sarebbe di salire, anche approfittando del prossimo aumento di capitale da 850 milioni di euro che partirà a breve, sino a poco meno del 20%, soglia oltre la quale scatterebbe l’obbligo di Opa. Mentre Bpce dovrebbe mantenere una partecipazione (anche se non è detto resti pari al 5,1%), a salire di taglia dovrebbe essere Gabriele Volpi, titolare di poco più del 2% al momento (per quanto alcune voci dicano che la quota sia già salita indirettamente attorno al 3,5%) ma dettosi pronto a salire anche oltre il 5% a fine aumento.
Anche nel caso dell’istituto ligure non è detto che l’aumento rappresenti la soluzione “definitiva”, se non altro perché prima occorrerà vedere il closing della cessione al fondo Apollo delle attività assicurative per 310 milioni, operazione per la quale il 13 maggio scorso era arrivato il via libera di Ivass, e della controllata Banca Cesare Ponti (i Nattino con Banca Finnat sono indicati come favoriti) e poi perché bisognerà capire se l’interesse di Bpm, una delle popolari meglio capitalizzate al momento, si concretizzerà in un’offerta ai Malacalza e nel successivo lancio di un’Opa su Banca Carige. Sempre a proposito di cessioni e acquisizioni di asset da parte di gruppi assicurativi, oggi UnipolSai ha annunciato che le controllate Atahotels e UnipolSai Investimenti Sgr (per conto del Fondo di Investimento Immobiliare Athens R.E. Fund) rileveranno l’attività alberghiera e gli immobili di Una per un controvalore complessivo di 287 milioni di euro, dando così vita al primo polo alberghiero italiano con oltre 50 strutture per quasi 8.600 camere, con un fatturato aggregato di oltre 170 milioni di euro.
La proprietà di Una, nata nel 2000 su iniziativa della famiglia Fusi, era passata da tempo ad un pool di banche (tra i soci principali figuravano Unicredit col 29%, Mps col 23%, la stessa Unipol col 18%, Bpm con l’8% e Banca popolare di Vicenza col 5%) a seguito di un concordato e tra i potenziali pretendenti aveva visto comparire nei mesi passati, almeno secondo voci di mercato, anche Prelios e Starwood Capital. Persino in questo caso non è detto tuttavia che quello con Unipol sia l’ultimo matrimonio per Una (e Atahotels), dato che il settore alberghiero italiano resta fin troppo parcellizzato per competere coi colossi mondiali: se anche si fondessero le prime 5 o 6 catene attualmente operanti nell’ex “bel paese” non si otterrebbe che un gruppo con poco più di 200 strutture,a malapena paragonabile alla più piccola tra le catene alberghiere statunitensi. Anche senza arrivare a tanto, un ulteriore raddoppio delle dimensioni è probabile a medio termine.
Insomma: l’Italia che sta faticosamente uscendo dalla crisi presenta una moltitudine di situazioni “in divenire” accumunate da un'unica certezza. che nulla potrà più essere uguale a prima, con tutto quello che ciò potrà significare in termini di esuberi e ricollocamento della forza lavoro. L'esito può apparire scontato visto le diferenti forze in gioco, specie quando si tratta di settori, aziende o marchi del “made in Italy” che ancora piaccino all'estero, eppure non è così semmai è il frutto delle politiche (o delle non politiche) industriali e non fatte negli ultimi decenni, oltre che della mutata attitudine di molti imprenditori italiani, anche per motivi demografici oltre che culturali e non solo economici.