Mentre in Europa le borse incrociano le dita e sperano che le nuove sanzioni Usa, destinate a toccare “nel portafoglio” l’entourage del presidente russo Vladimir Putin, riescano a raffreddare le tensioni tra Mosca e Kiev, Wall Street torna a concentrarsi su operazioni di finanza straordinaria che se andassero in porto potrebbero rapidamente cambiare il volto di alcuni settori chiave come la farmaceutica e i produttori di sistemi di trasporto e di motori.
A muoversi all’attacco sono infatti gruppi come Pfizer (il celebre produttore newyorkese del Viagra) che da settimane corteggia, per il momento inutilmente, l’inglese AstraZeneca proponendo un matrimonio da 100 miliardi di dollari, piuttosto che General Electric, che ha provato a offrire alla francese Alstom (produttore di treni ad alta velocità e di centrali elettriche) 10 miliardi di euro (più i 2 miliardi di euro in cassa alla società) per rilevare il ramo energia che rappresenta 73% del fatturato, ottenendo per ora il solo risultato di un’immediata controproposta da parte dei tedeschi di Siemens che in una lettera hanno proposto di avviare a loro volta trattative partendo da una valutazione di 10-11 miliardi delle medesime attività.
L’attenzione degli Usa per l’Europa e per l’Italia (come già ricordavo qualche settimana fa) si spiega in parte con la volontà di “recuperare” un rapporto strategico che si era andato negli anni appannando offrendo spazio proprio alla Russia, dall’altro sembra avere una motivazione “banalmente” contabile-fiscale: le multinazionali Usa, beate loro, scoppiano di liquidità e profitti fatti all’estero (le stime parlano di 57 miliardi di dollari di riserve in contanti accumulati all’estero per General Electric e di 67 miliardi per Pfizer) che se riportati in patria finirebbero tassati sia se venissero distribuiti sotto forma di dividendi (dopo l’accordo sul “fiscal cliff” di inizio anno l’aliquota su dividendi e capital gain è passata dal 15% al 20% per tutti i residenti di reddito superiore a 400 mila dollari) sia se servissero a finanziare nuovi investimenti e dunque generassero reddito imponibile (che negli Usa è tassato al 40% secondo i dati di Kpmg).
Curiosamente, se per quanto riguarda la tassazione delle “rendite finanziarie” gli Usa sono ancora in una posizione di vantaggio, sia pure meno di prima, rispetto all’Italia, per quanto riguarda la tassazione sui redditi d’impresa a sorpresa il Bel Paese (e l’Europa in genere) sembrano in vantaggio, visto che da noi l’aliquota media è passata al 31,4% (27,5% di Ires più un’aliquota ordinaria Irap del 3,9% che quest’anno inizierà a ridursi), anche se la pressione fiscale complessiva sembra ben superiore. Il che potrebbe tradursi (il condizionale resta d’obbligo), in caso di un consolidamento della ripresa europea che non sia dovuto solo ad un “abbaglio contabile”, come sembra purtroppo il caso della supposta ripresa spagnola, in gran parte legata ad un miglioramento dell’interscambio commerciale con l’estero che però nasconde un calo dell’import più marcato della frenata dell’export (e non una crescita delle esportazioni, tanto meno della domanda interna), in un incremento degli investimenti esteri e statunitensi in particolare nel vecchio continente ed anche in Italia.
Tra l’altro, la politica seguita dalla Bank of Japan che sta cercando di mantenere il più possibile bassi i tassi d’interesse in Giappone (sui titoli di stato decennali del Sol Levante si ottiene circa un 1% lordo annuo, contro l’1,5% dei Bund tedeschi per non dire il 3,13% dei Btp italiani) e la prospettiva che in parallelo lo yen possa ulteriormente indebolirsi (gli analisti giapponesi si attendono un calo attorno al 10% da qui a fine marzo 2015 contro dollaro ed euro) per cercare di avviare il motore della “Abeconomics” che sinora si è nutrita più di annunci e speranze che di conferme concrete, sta facendo sì che molti grandi investitori istituzionali giapponesi, a partire dalle assicurazioni Vita (che debbono trovare il modo di garantire nei prossimi anni una rivalutazione decente a fondi pensione e polizze vita), stiano sempre più investendo in titoli di stato esteri.
Come dire che al netto delle polemiche “balnerari” che stanno come di consueto caratterizzando la campagna elettorale per le europee in Italia, la possibilità di una “congiuntura astrale favorevole” per l’Europa e forse anche per l’Italia con investitori pronti a sottoscrivere titoli di stato al posto delle banche, banche che dopo aver passato gli stress test della Bce potrebbero un minimo tornare a riaprire l’erogazione di credito ad aziende e famiglie e aziende estere pronte a rilevare marchi e attività europei è concreta. Purché, ovviamente, non continui a prevalere un approccio puramente contabile che metta una pietra tombale alla (per ora futuribile) ripresa seppellendola sotto nuove tasse o tagli “orizzontali” della spesa pubblica.
Purtroppo il rischio non può essere escluso, perché già ora si parla di una manovra da 25 miliardi di euro da presentare in autunno, di cui 10 miliardi sarebbero le coperture per l’annunciato taglio dell’Irpef e 5 miliardi le ulteriori “clausole di garanzia” per centrare il raggiungimento del pareggio strutturale di bilancio. Tuttavia il solo fatto che una svolta sia possibile dovrebbe incoraggiare chi intenda trovare la “quadratura del cerchio” a intensificare gli sforzi per varare riforme in grado di sfruttare il momento favorevole: basterà?