L’oro non brilla più? Nonostante le tensioni persistenti attorno alla crisi banco-sovrana europea (a proposito: voce giusta ma soggetto sbagliato per quanto riguarda il downgrade di un sovrano europeo. A finire dietro la lavagna all’ultimo non è stata la Germania, bocciata solo dalla piccola Egan-Jones, ma l’Inghilterra, su cui si abbatte la ben più pesante scure di Fitch che porta il merito di credito da “AAA” a “AA+” a causa della debolezza economica e fiscale del paese e delle attese di un incremento del debito e del deficit del paese, della serie “beati coloro che non hanno l’euro”, come no), il metallo biondo ha toccato martedì scorso un minimo a 1378 dollari l’oncia nel fixing mattutino del mercato londinese, prima di risalire, a fatica, a 1414 dollari ieri mattina (ma è poi scivolato a 1405,5 dollari nel fixing pomeridiano di Londra e in serata a 1401,50 dollari l’oncia a New York). Rompendo un supporto tecnico importante, quota 1.520 dollari l’oncia, sull’oro, notano in una nota gli analisti del Credit Suisse, sono scattate vendite automatiche che hanno accelerato il crollo (il peggiore mai registrato dagli anni Ottanta del secolo scorso).
Ed ora che succede? Il trend di medio periodo, dopo 12 anni di sostanzialmente ininterrotta crescita, appare compromesso e volto al ribasso, anche se a breve le quotazioni appaiono “cheap” (a buon mercato) secondo le valutazioni del valore di equilibrio effettuate dagli stessi analisti del Credit Suisse che anzi precisano come sotto i 1420 dollari l’oncia l’oro possa dirsi “sottovalutato” e che però avvertono: con gli investitori che ancora stanno riducendo le posizioni vi è il rischio che il ribasso continui, pur con qualche pausa, per almeno altri 1-6 mesi, con la possibilità di vedere il metallo biondo circa cento dollari sotto i livelli attuali, attorno ai 1300 dollari l’oncia. Su un orizzonte di tempo più ampio, dai 12 mesi in avanti, la relativa economicità dell’oro e i bassi tassi d’interesse reali (che rendono poco interessante altri “beni rifugio” come T-bond e Bund, almeno sotto il profilo del rendimento dell’investimento) dovrebbero offrire secondo gli esperti “un qualche supporto, tanto che i prezzi dovrebbero stabilizzarsi” attorno ai 1450 dollari l’oncia.
A chi può fare bene e a chi male un ulteriore calo dei prezzi dell’oro (e dei metalli preziosi in genere)? Nell’immediato il crollo delle quotazioni fa male a tutti quegli investitori privati, come John Paulson (uno dei principali gestori di fondi hedge statunitensi) che ancora avevano puntato su un recupero dell’oro (mentre altri come George Soros gongolano, avendo smantellato le posizioni nel corso dell’ultimo trimestre dello scorso anno dopo essersi ricreduti circa le prospettive delle quotazioni). Inoltre il calo dei prezzi dei metalli preziosi mette in ulteriore difficoltà le maggiori società minerarie mondiali come Anglo American o Barrick Gold, le cui quotazioni sono parallelamente crollate, anche perché oltre a indiscrezioni circa la possibile vendita di parte dell’oro detenuto dalla Banca centrale europea e un “sell” (vendere) decretato da Goldman Sachs che ha generato nervosismo e fatto chiudere molte posizioni attraverso la vendita di Etf sull’oro, almeno in parte il calo dell’oro e dei preziosi in genere è legato al rallentamento della domanda indiana e cinese, che amplifica, come nota Morgan Stanley in una nota, lo scarto tra l’offerta (stabilmente sopra le 4.100 tonnellate di oro all’anno) e la domanda (lo scorso anno attorno alle 3.900 tonnellate, di cui 1233 a scopo di investimento, quest’anno vista in calo a 3824 tonnellate, di cui 1212 per investimento).
Ma non è solo lo squilibrio tra offerta e domanda (destinato secondo Morgan Stanley a durare almeno fino al 2016) a premere sulle quotazioni dell’oro. Tra le altre cause vi sarebbe anche il timore di un rallentamento della crescita mondiale e di conseguenza attese di un ulteriore periodo di deflazione (o bassa inflazione). Due elementi che porterebbero facilmente le banche centrali a proseguire nella politica di tassi ai minimi storici e di azioni di sostegno ai mercati tramite l’acquisto di titoli di stato sul mercato (cosidetto “quantitative easing”), equivalente nella sostanza a stampar moneta per cercare di irrorare di liquidità il sistema e favorirne la ripartenza, o quanto meno “comprare tempo” per evitarne tensioni simili a quelle registrate nel secondo semestre del 2011 e dare modo alle autorità, tanto in Europa quanto in Giappone e negli Stati Uniti, di varare quelle ormai indispensabili riforme strutturali che possano far ripartire la crescita in Occidente.
Col che anche l’andamento dell’oro sembra tornare a dipendere in ultima analisi solo dalla capacità delle autorità occidentali di far ripartire l’economia: in questo senso il crollo delle quotazioni sembra un auspicio molto peggiore dell’incapacità del Parlamento italiano di dotarsi di un nuovo Presidente della Repubblica e di un governo nel pieno delle sue funzioni. Quanto a chi potrebbe far bene un ulteriore calo delle quotazioni, la risposta naturale sarebbe al settore orafo (e industriale), visto che riduce il costo delle materie prime, a patto però che ci sia crescita (in Italia o da qualche parte nel mondo) e che le aziende del settore siano in grado di approfittarne. Due precondizioni che per le aziende tricolori, vista anche la crisi politica in atto e l’assenza di una politica industriale a sostegno del comparto, non è detto sia facile veder realizzate, salvo puntare sulla qualità e sull’innovazione di prodotto, come fatto da una manciata di grandi marchi Per i produttori “unbranded” il futuro sembra decisamente meno roseo, indipendentemente dal costo dell’oro.