L’assassinio della deputata laburista Jo Cox, schierata a favore della permanenza della Gran Bretagna nella Ue, da parte di un uomo che sembra aver gridato “Britain first” prima di aprire il fuoco è un fatto devastante in sé come qualsiasi perdita di vite umane, un trauma per il Regno Unito che ha imposto uno stop alla campagna referendaria per scegliere se rimanere o lasciare l’Unione europea, un atto che dimostra come la politica urlata, l’estremizzazione verbale, rischi di generare una perdita di senso e di civiltà ben oltre le intenzioni di coloro che soffiano sul fuoco populista.
Ma paradossalmente ai mercati appare come una boccata d’ossigeno, perché allontana lo spettro di una vittoria del partito “pro Brexit” che ormai sembrava quasi certa e di ulteriori iniezioni di liquidità sui mercati a parte delle banche centrali nel tentativo di contenere (“drogare”) la volatilità dei mercati. Liquidità che schiaccerebbe ulteriormente i tassi sotto zero e li manterrebbe sugli attuali o più bassi livelli per un periodo di tempo ancora superiore a quanto già previsto. Così a rimbalzare sono oggi banche e assicurazioni, ossia i titoli più esposti al rischio “Brexit”. Che il rimbalzo non sia solo legato ad una minore o maggiore percezione del rischio di un’uscita della Gran Bretagna dalla Ue è peraltro evidente guardando i nomi e l’ampiezza dei rimbalzi a Piazza Affari.
Campione di giornata è infatti Banca Carige, che recupera il 18%, davanti a Ubi Banca (+9,96%), Bper, Bpm e Banco Popolare, tutti sopra il 9,5% di rialzo. Più indietro, ma sempre in forte rialzo, Unicredit, Mps e Intesa Sanpaolo. Fateci caso, si tratta degli stessi nomi su cui da mesi si continua a discutere, per via della fragilità di alcune situazioni a livello patrimoniale non meno che in termini di esposizioni al rischio di un ulteriore incremento degli Npl (i crediti non performanti, ossia in varia misura “marci”, destinati a non tornare indietro) e sofferenze (i crediti che pressoché certamente sono da considerare persi). La “Brexit” ha agito in queste ultime settimane semplicemente come catalizzatore di malumori evidenti almeno dallo scorso ottobre, quando una volta noti gli esiti della Srep (la Supervisory review and evaluation process portata avanti dalla Bce) i titoli di tutte le maggiori (e non solo) banche europee hanno iniziato a perdere quota.
Il problema è sempre quello: più si alza l’asticella della Bce, che vuole gradualmente rendere il sistema bancario europeo solido quanto quelli americano e asiatico, più il mercato si rende conto dello stato comatoso in cui molti istituti restano a distanza di sette anni dall’esplosione della crisi economico-finanziaria mondiale e di come, essendo impossibile procedere in tempi rapidi e a valori “congrui” a cessioni di asset non strategici con cui fare cassa, cresca il rischio di aumento di capitali da parte degli istituti. In Italia chi ha provato a chiedere soldi al mercato, specie dopo aver dovuto pesantemente svalutare i propri titoli o attivi patrimoniali (come Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca) o chi sta chiedendo o chiederà soldi per procedere a ulteriori svalutazioni delle sofferenze in portafoglio, come Banco Popolare e, si sospetta, come Unicredit, ha dovuto chiedere aiuto.
Ma per organizzare gli aiuti (come il fondo Atlante), si è visto, non c’è molto spazio di manovra, tanto che anziché raccogliere i 6 miliardi sperati Quaestio Sgr (che gestisce il fondo Atlante) si è dovuta accontentare di poco più di 4,2 miliardi e sta ora provando a far nascere un secondo fondo per portare a termine la missione di acquistare alcune decine di miliardi (di valor nominale) di Npl, avendo già dovuto sottoscrivere integralmente l’aumento di BpVi e dovendo presumibilmente sottoscrivere per oltre il 50% anche l’aumento di Veneto Banca. Perché la “Brexit” ha fatto da catalizzatore rispetto a uno scenario già negativo di suo, da tempo?
Perché tassi sotto zero sono di fatto una forma di imposizione patrimoniale sulle banche (che nel capitale vedono il principale fattore produttivo), che dovrebbero riuscire a riorganizzarsi in modo da gestire maggiori rischi e attenere così maggiori ritorni che non parcheggiare la liquidità su titoli di stato e bond in genere, tanto più che è probabile che la Germania ottenga alla fine che anche sui titoli di stato si applichi una qualche ponderazione per il rischio, rispetto all’attuale situazione in cui tali strumenti sono considerati “privi di rischio”.
Se vi fosse il tempo di fare le cose con calma, di aspettare che la ripresa si irrobustisca, le sofferenze calino, i mercati tornino a fidarsi e a offrire capitali e i titoli di stato non debbano più essere sottoscritti “a prescindere” per amor di patria da parte del sistema bancario domestico, la volatilità sarebbe di molto ridotta. Così non è, visto che per avere uno scenario di ripresa solida e fiducia sui mercati altrettanto robusta occorreva già da tempo aver impostato una serie di riforme che, semplicemente, non esistono allo stato e non si sa se e quando l’Europa tutta, e non solo i singoli paesi come l’Italia, saranno in grado di compiere (a partire da una politica comune sull’immigrazione sino ad un’armonizzazione delle politiche fiscali e ad una mutualizzazione del debito).
L’Europa, e l’Italia con lei, resta in mezzo al guado in un mondo ricco di incognite e tensioni, alcune drammatiche. Per questo la “Brexit” può essere il detonatore di una reazione a catena i cui costi sono molto difficili da valutare al momento; per questo la sensazione che la “Brexit” sia oggi meno probabile di ieri viene festeggiata dai mercati. Può sembrare cinismo, ma sono solo valutazioni di opportunità e convenienza rispetto al rischio percepito: i mercati non danno mai giudizi morali, solo giudizi economici, più o meno fallaci.