Com’è possibile che in un periodo di forte recessione come quello in cui si trova da diversi trimestri l’Italia oltre al debito pubblico (che, ci informa Banca d’Italia, a fine aprile era pari a 2.041,293 miliardi di euro, di cui poco meno di 494 miliardi in titoli scadenti entro l’anno, quasi 690 miliardi in titoli con vita residua tra 1 e 5 anni e i rimanenti 858 miliardi abbondanti con vita residua superiore a 5 anni, per una vita media del debito pubblico risalita a 7,0 anni) salgano anche le entrate fiscali è un “miracolo italiano” che si fatica a comprendere ma come detto ieri probabilmente non durerà a lungo se la crisi proseguirà (e non si vede, non essendovi risorse pubbliche né investimenti o consumi privati per sostenere la domanda, come possa non proseguire). E’ dunque opportuno cercare di capire dove si annidino le più importanti voci di spesa e come stiano variando, per poter prevedere dove il governo Letta, se davvero non vorrà aumentare ulteriormente le tasse (l’abolizione dell’Imu sulla prima casa costerebbe 4-5 miliardi di euro l’anno, evitare l’aumento da tempo annunciato di un punto percentuale dell’Iva sui beni di consumo altrettanto), dovrà andare a incidere.
Torniamo all’ultimo Supplemento al Bollettino statistico della Banca d’Italia: analizzando la composizione del debito delle diverse amministrazioni locali emerge come l’aumento più rilevante della spesa abbia riguardato in questi mesi le Regioni, che in aprile sono arrivate ad un debito cumulato di 46,7 miliardi di euro, contro i 45,3 miliardi di fine marzo e contro i 40,7 miliardi circa di fine aprile 2012. Con chi si sono indebitate le Regioni italiane? Sostanzialmente con la Cassa depositi e prestiti (25,3 miliardi sommando questo debito a quello contratto con altre istituzioni finanziarie/monetarie, rispetto ai 23,9 miliardi di fine marzo e ai 23,5 miliardi dell’aprile 2012), perché il ricorso al mercato si è di fatto arrestato e nuovi titoli obbligazionari non vengono emessi da mesi, tanto che dai 13,28 miliardi di titoli in circolazione a maggio 2011 si è scesi ai 12,07 miliardi attuali. Il ricorso alla CdP è un esempio di contabilità “creativa” che contribuisce in un modo differente ma complementare alla crescita “anticiclica” delle entrate fiscali (nel breve periodo) a sostenere il “miracolo italiano”, consentendo di non strozzare ancora più decisamente la spesa pubblica perché l’indebitamento di CdP (che deve ovviamente andare sul mercato per rifinanziarsi e poter concedere prestiti alle amministrazioni pubbliche italiane) non viene formalmente contabilizzato nel debito pubblico.
Il che spiega anche perché periodicamente si proponga di far ripartire l’economia tramite l’intervento di fondi più o meno “strutturali” di CdP impegnati a rilevare asset “strategici” per il paese da operatori privati o pubblici, così da sgravarli, tra l’altro, della necessità di effettuare investimenti per la gestione e manutenzione costante dell’asset medesimo: si pensi al caso di cui si parla in questi giorni dell’eventuale acquisizione, peraltro in veste di azionista di minoranza, della rete fissa di accesso di Telecom Italia, attorno alla cui valutazione sarebbero in corso da settimane trattative tra l’azienda e la CdP in vista della costituzione di una “Newco” a cui conferire la rete stessa e nella quale potrebbe poi entrare con una quota da definire ma verosimilmente tra il 20% e il 30% CdP. Vi è da dire che in passato nonostante questi espedienti il rapporto debito/Pil, che nel 1861, alla nascita del Regno d’Italia, era attorno al 36%, per poi essere già balzato all’80% solo 10 anni dopo e più o meno rimanervi, con alterne vicende legate alle due guerre mondiali, sino agli anni del vero “miracolo italiano” quando, grazie alla crescita economica, scese nuovamente attorno al 30%, balzando invece sopra il 120% già a partire dagli anni Novanta, non è mai riuscito a stabilizzarsi entro livelli “di sicurezza” (secondo vari studiosi un debito/Pil è sostenibile sino a che il rapporto non supera il 60%-70%). Salvo, appunto, in momenti di forte crescita ma questa sapete bene che manca da oltre 15 anni.
E gli altri enti pubblici? Tirano la cinghia già da un po’: le tanto vituperate Province (avete notizie della proposta di abolizione delle medesime o almeno dell’accorpamento delle più piccole? Io no) da tempo non si indebitano ulteriormente ed anzi dal picco di 9,33 miliardi toccato nel novembre 2011 hanno visto il proprio debito ridursi agli attuali 8,26 miliardi circa. Come dire che se con una bacchetta magica svanissero domani e con esse il relativo debito guadagneremmo un anno di sospensione di Imu sulla prima casa e un anno di rinvio dell’aumento dell’Iva sui beni di consumo. Meglio che niente, ma dubito accadrà. E i Comuni? Questi, forse perché più facilmente “controllabili” dai contribuenti o semplicemente perché stanno ricevendo sempre meno trasferimenti centrali e in molti casi sono già falliti (letteralmente) e non possono dunque indebitarsi ulteriormente, stanno riducendo il proprio debito, passato da un picco di 50,64 miliardi nel luglio 2011 a 45,49 miliardi a fine aprile scorso.
In questo caso a calare sono stati sia i debiti rappresentati da titoli (ve n’erano in circolazione per 9,8 miliardi nel maggio 2011, ve ne sono ancora per circa 9 miliardi) sia i prestiti concessi da CdP (dal picco di 40,6 miliardi dell’aprile dello scorso anno a poco più di 38 miliardi lo scorso aprile). Se poi in questi giorni (o più facilmente col conguaglio previsto a dicembre) scoprirete un aumento delle aliquote comunali dell’Imu, o della Tares, o noterete come i vigili urbani siano diventati particolarmente solerti nel verbalizzare contravvenzioni e multe varie, magari mentre il comune rimanda il pagamento di stipendi e delle somme dovute ai propri fornitori, non vi stupite, è un’altra faccia di questo nuovo “miracolo italiano” in cui le tasse continuano a salire pur in assenza di crescita economica.