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Opinioni

Iva e dintorni: prima di parlare collegare il cervello, please

Continuano le polemiche politiche attorno all’Iva e alle misure alternative che si sarebbero dovute o potute prendere per rinviarne l’aumento. Cerchiamo di fare chiarezza una volta per tutte…
A cura di Luca Spoldi
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L’informazione economica in Italia sembra basarsi su una serie di luoghi comuni e preconcetti quando non palesi errori e inganni della pubblica fede, volete un esempio? Prendete la vicenda dell’aumento dell’Iva: come sapete dal primo ottobre l’aliquota ordinaria dell’Iva è aumentata dal 21% al 22%. Al 21% l’aliquota ordinaria era stata portata dal 17 settembre 2011 dopo la “manovra d’agosto” prevista dalla Legge n. 148/2011 di conversione al D.L. 13 agosto 2011 n.138 varata dal governo Berlusconi (poi uscito di scena nel novembre di quell’anno). Al 20% (dal 19%) era stata innalzata dal 30 settembre 1997, con la Legge n. 410/1997 di conversione al D.L. 29 settembre 1997 n. 328, dal governo Prodi.

Dire che alzare l’Imposta sul valore aggiunto è un esempio “di larghe intese” è un eufemismo e questo è vero sia che si consideri l’attuale “seconda” Repubblica sia la “prima”, visto che l’imposta, entrata in vigore, il primo gennaio  1973 con un’aliquota ordinaria del 12%, venne portata al 14% nel 1977, al 15% nel 1980, al 18% nel 1982 e  infine al 19% nel 1988, prima dell’escalation di questi ultimi 16 anni. Perché si aumenta l’Iva e cosa cambia rispetto ad altre possibili imposte o accise? Si aumenta l’Iva perché non si vuole (in tempo di crescita economica) o non si riesce (in tempo di recessione come attualmente) a tagliare la spesa pubblica e dovendo l’Italia rispettare il patto di stabilità e crescita (Sgp, Stability growth pact), controfirmato tanto dai governi di centrodestra quanto da quelli di centrosinistra (e ovviamente da quelli “tecnici”), non sembra possibile “sforare” i famosi rapporti deficit/Pil (massimo 3% annuo, ovvero lo 0,5% “strutturale” ) e debito/Pil (massimo 60% entro il 2033) e dunque quando il Pil cade anche in termini nominali, come disgraziatamente accade in momenti come questi che vedono poca inflazione e Pil reale in calo, i governi tendono, incautamente, ad aumentare il prelievo fiscale per continuamente “mettere una pezza” ai conti pubblici.

La pezza messa dall’Iva non si scarica interamente sui consumatori come vuole la vulgata comune, perché soprattutto in situazioni come l’attuale di reddito disponibile già fortemente ridotto e consumi già in crisi, molti produttori o distributori preferiscono assorbire in tutto o in parte (magari martellandoci con pubblicità ogni giorno per ricordarci il “nobile gesto”) l’incremento dell’Iva, che per la verità è una partita di giro per le imprese e finisce col gravare, questo sì, solo sull’ultimo anello della catena, ossia l’acquirente finale (che non può fatturare a sua volta e accreditare/addebitare al fisco, periodicamente, la differenza tra Iva riscossa e Iva pagata). Le eventuali accise sulla benzina di cui si è vociferato come “copertura” alternativa in caso di slittamento dell’incremento dell’Iva avrebbero avuto un effetto analogo, ma dato che la domanda di benzina è per definizione poco elastica, probabilmente avrebbe finito con lo scaricarsi più direttamente nelle nostre tasche, sia perché sarebbe aumentato il prezzo dei carburanti per le nostre auto, che almeno in parte dobbiamo continuare a usare comunque, sia perché si sarebbe probabilmente riflesso in un aumento dei costi di trasporto delle merci e dunque potenzialmente in un aumento dei costi di vendita delle stesse.

In sostanza un incremento delle accise è persino più “regressivo” (ossia colpisce in proporzione i redditi medio-bassi più di quelli elevati) di un aumento dell’Iva (che già non è il massimo di “progressività” per varie ragioni). A scanso di equivoci vi invito a riflettere anche su altre alternative, un aumento delle imposte sui redditi (societari o delle persone fisiche) o il taglio della spesa. In entrambi i casi nell’immediato ad essere colpito sarebbe stato ancora una volta il reddito disponibile (se poi dopo i tagli la qualità della spesa pubblica migliorasse e se le aziende investissero in innovazione forse il reddito tornerebbe a salire, ma questo è un altro discorso), vuoi perché le aziende avrebbero visto diminuire i propri profitti netti, vuoi perché sarebbero state le persone fisiche a trovarsi meno soldi in tasca a fine mese, vuoi perché qualcuno avrebbe perso il posto. In tutti i casi la cosa certa è che le imposte riducono o il consumo o il risparmio (e nel caso delle imprese tendono a rendere meno attraenti gli investimenti, il che non è il massimo per un paese che dice di cercare di far tornare a crescere gli investimenti nazionali ed esteri) o tutte e due, in modi e in tempi che dipendono da una miriade di fattori (tra cui il reddito di partenza, il patrimonio di partenza, l’elasticità al prezzo della domanda dei singoli beni o servizi, la presenza di ammortizzatori sociali/integratori di reddito, la presenza di barriere alla concorrenza e così via).

Ogni ulteriore polemica sul fatto che questo o quel partito vuole o non vuole aumenti di imposte, o tagli di spesa, per non danneggiare i consumi e con essi la fantomatica futura ripresa (che resta la condizione indispensabile per cercar di far quadrare i conti e ridare un minimo di prospettive a questo paese) è del tutto vacua e pretestuosa eppure sono sicuro che continueremo a sentir parlare a lungo di questa “diatriba” senza che nessuno ritenga opportuno o sia in grado di valutare e spiegare adeguatamente costi e benefici (e come si ripartiscono gli uni e gli altri nella “società civile”) dell’una o dell’altra soluzione.  Un po’ come quando si parla della sostenibilità/insostenibilità del debito pubblico italiano o della funzionalità/disfunzionalità dell’euro per la nostra economia. Ma queste sono altre storie che vi racconterò presto.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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