C’è qualcosa di perverso nel Dna degli Italiani, ma neppure Francesi e Tedeschi sembrano messi molto meglio. Cerchiamo di fare il punto a conclusione dell’ennesima settimana “pirotecnica” per i mercati finanziari (che sospetto non sarà l’ultima dell’anno).
Primo: l’aumento di capitale di UniCredit tiene banco sui giornali di tutto il Belpaese almeno quanto sui siti e sulle testate finanziarie mondiali, ma con accenti ben diversi. Dopo la mazzata pesantissima dei primi giorni, il titolo rimbalza e con lui il diritto e sui giornali tricolori è un accendersi di virtuose prose che decantano l’italianità dell’operazione (o che segnalano la minaccia ancora latente di “barbari alle porte”, dalla Cina al Kazakistan: poco importa che gli interessati smentiscano o alzino le spalle, si sa che quella della macchinazione è un filone narrativo che affascina gli Italiani sin dai tempi di Macchiavelli). Peccato che in pochi si chiedano se ha senso continuare a investire nello stesso gruppo, guidato sostanzialmente dagli stessi manager scelti o sopportati dagli stessi azionisti degli ultimi tre anni, anni in cui si sono bruciati 19,5 miliardi tra aumenti di capitale (4+4+7,5 miliardi richiesti) e dividendi non distribuiti (4 miliardi) e in cui alla fine si è deciso di avviare una “robusta” pulizia di bilancio facendo svanire nel nulla 9 miliardi di euro, con la non troppo latente minaccia che sugli altri 950 miliardi di asset ce ne siano almeno una cinquantina a rischio di ulteriori svalutazioni. Meglio insistere sul classico concetto che “l’importante è salvaguardare l’italianità del gruppo” (e le poltrone su cui sono seduti “lor signori” banchieri e bancari, con relative prebende milionarie), anche perché UniCredit dopo i primi pesanti ceffoni ha avviato una martellante pubblicità (e d’altra parte di banche zombie è pieno il mondo e solo per paura di fare la fine di Piazza Cordusio stanno tuttora evitando di tirare fuori gli scheletri di cui son pieni i loro armadi).
Secondo: i Ligresti, nome storico dell’imprenditoria italiana, quella partita facendo affari col mattone ed arrivata a gestire imperi finanziari da migliaia di miliardi di euro di patrimonio grazie anche o soprattutto alla frequentazione dei “salotti buoni”, accettano la resa e si fanno da parte dando il via libera alla bolognese Unipol (controllata dalle “cooperative rosse” che la governano attraverso Finsoe) una fusione “a quattro” (Premafin e le holding di famiglia che la governano, Fondiaria-Sai, Milano Assicurazioni e appunto Unipol). Non gli deve essere costato molto in realtà, visto che ottengono per il pacchetto di controllo di Premafin circa 77 milioni di euro, altri 14 li otterranno in cinque anni a livello personale il patriarca Salvatore Ligresti e i figli Giulia, Paolo, Jonella per non fare “concorrenza” che prevede per loro “l’impegno a non avvalersi dei loro consolidati rapporti con la rete agenziale e la clientela del gruppo Fonsai”. Un rischio concreto, non trovate, da parte di un gruppo di imprenditori/dirigenti che sono riusciti a creare debiti per oltre 700 milioni di euro (oltre 3 volte la capitalizzazione attuale di Fondiaria-Sai) a livello delle varie holding a cui vanno sommati quelli di FonSai stessa, che quest'anno anziché chiudere come previsto in utile di 55 milioni di euro ha preannunciato di dover chiudere in rosso di oltre 950 milioni dopo un miliardo di euro bruciati in “pulizie di bilancio”?
Terzo: se gli italiani sono così imbarazzantemente abituati a seguire strade tortuose per giungere al successo personale o societario anziché investire nelle competenze proprie o dei propri figli, non ci si dovrebbe stupire che il “Belpaese” sia la patria di corporazioni, cricche e lobbies a tutti i livelli, dal circolo degli scacchi alle varie confederazioni di banchieri, industriali e commercianti, passando per liberi professionisti, tassinari o farmacisti. Le quali corporazioni al minimo accenno di una qualsivoglia riforma che riavvicini lo sclerotico sistema economico italiano alla data che sta sul calendario (siamo nel 2012, non nel 1912 se qualcuno non se ne fosse accorto) si schierano compatte a difesa strenua dell’esistente. E quindi (orrore!) guai a parlare di orari flessibili per i negozi, guai a pensare di aumentare il numero di notai o ad eliminare le tariffe professionali degli avvocati, guai a pensare di portare i farmaci di fascia C sugli scaffali dei supermercati o aumentare le licenze per il servizio taxi: tutti vi si rivolteranno contro ricordandovi che la crisi esisterà pure ma non si capisce perché si debba iniziare da loro e che in ogni caso loro sono già dei poveri cristi e semmai avrebbero bisogno di aiuti altro che di ulteriori penalizzazioni! Che restando ancorato a settori, attività e modelli organizzativi e relazionali il paese sia destinato a scivolare sempre più indietro (e che i Tedeschi e non solo loro non si fidino più dell'Italia) non sembra importare a molti, tanto ognuno è convinto in cuor suo di poterla “sfangare” anche stavolta, se riuscirà a difendere i suoi privilegi.
Quarto e ultimo “memento”: se gli Italiani stanno messi male, non è che Francesi e Tedeschi stiano messi molto meglio. I loro attuali leader politici sembrano volerli blandire esattamente come hanno fatto i partiti italiani sino all’altro ieri (e come si preparano a fare nuovamente appena ne avranno l’occasione, ossia entro l’anno venturo), convincendoli che la crisi non è “colpa loro” ma di altri. Non è un mistero che le crisi e i problemi siano figli orfani, del resto, ma se non altro Standard & Poor’s (già attaccata da destra e da sinistra in tutta Europa per aver osato “immischiarsi” nuovamente con una nuova pesante raffica di downgrade dei rating sovrani, che taglia la tripla A di Austria e Francia e penalizza l’Italia con una doppia retrocessione a “BBB+”, a un soffio dal livello di “junk”, cartaccia) ha messo nero su bianco quanto io e altri colleghi analisti andiamo ripetendo da qualche tempo, ossia che il rigore può essere un bene ma l’intransigenza è un segno di stupidità. O forse no, visto che la Germania ci guadagna e non poco dall’attuale situazione di crisi che vede imponenti flussi di capitali riversarsi sui suoi titoli di stato anche a costo di ottenere rendimenti negativi pur di parcheggiare la liquidità (di cui il mondo e l’Europa sono pieni a dispetto delle apparenze, ma che non viene utilizzata per totale mancanza di fiducia rischiando di auto avverare nel modo peggiore le profezie di sciagura che da tempo alcuni formulano).
Serve, ribadisce S&P’s, uno strumento sufficientemente capiente per rassicurare gli investitori che i crediti saranno puntualmente ripagati e non provare scorciatoie “alla greca” che inducano i bondholder privati a “rinunciare volontariamente” alla metà dei propri crediti per alleviare un peso dalle spalle del debitore che proprio la politica fiscale intransigente voluta dalla Germania sta aggravando ogni giorno di più. Per chi non l’avesse capito la Germania, dice in pratica S&P’s, deve accettare di finanziare un fondo europeo realmente capiente, o accettare il varo di Eurobond comunitari, o dare mano libera alla Bce perché diventi anche di diritto oltre di fatto come già ora un “prestatore di ultima istanza” (e quindi disponga di una potenza di fuoco teoricamente infinita con cui rassicurare i creditori). E deve farlo alla svelta perché ogni giorno che passa la sua soluzione, avvallata dai Francesi solo per salvare la faccia in qualche modo, produce ulteriori danni e non migliora di una virgola la situazione. Poi, una volta superata la fase acuta della crisi, si potrà tornare a invocare rigore e si dovrà essere tutti quanti (Italiani compresi) sufficientemente seri e intelligenti da capire che solo investendo in una sana gestione, in una sana imprenditoria, in una sana politica e nello sviluppo di nuove competenze si potrà dare un futuro a noi e ai nostri figli.