Mentre il Pd va alla conta cercando di capire chi resta e chi esce (oltre a numerosi “big” come Pierluigi Bersani, Vasco Errani o Roberto Rossi, si parla di 40-60 tra deputati e senatori) le metropoli italiane restano ostaggio dei tassisti che il governo sembra voler blandire schierandosi a favore della difesa di rendite di posizione contro l’apertura al mercato.
Un brutto segnale che la dice lunga sull’attitudine dell’intera classe politica italiana (“vicini” ai tassisti in rivolta anti Uber si sono dichiarati anche numerosi esponenti dell’opposizione) a guidare il paese verso il nuovo che, volenti o nolenti, avanza in tutto il mondo mentre in Italia si continuano a tentare battaglie di retroguardia.
Ma se l’attitudine della classe dirigente del paese a guardare al futuro e non al passato appare quanto meno debole, i problemi che aspettano gli italiani stanno facendosi ogni giorno più concreti. Lasciamo stare per un attimo la crisi bancaria, rispetto alla quale solo la Bce si è mossa, in maniera che in Italia è apparsa fin troppo brusca, abituati ai tempi biblici con cui la foresta pietrificata era abituata a muoversi.
Lasciamo stare pure le riforme strutturali che avrebbero dovuto restituire competitività al paese e non lo hanno fatto come dimostra il fallimento del “Jobs Act” testimoniato dal nuovo crollo delle assunzioni stabili una volta esauriti gli sgravi fiscali. Il bello, si fa per dire, deve ancora venire.
Dato che già i governi Monti, Letta e poi Renzi hanno via via fatto slittare le “clausole di salvaguardia” chieste dall’Europa a causa dei continui scostamenti dei conti pubblici italiani rispetto ai parametri stabiliti in sede di accordi europei, il prossimo anno l’Italia, già richiamata dalla Commissione Ue a definire entro e non oltre aprile la “manovrina” da 3,4 miliardi necessaria a correggere gli squilibri già emersi a fine 2016, dovrà varare una manovra economica da 19 miliardi di euro tra maggiori tasse o minori spese.
Nel 2019, poi, il conto salirà a 23 miliardi e a qual punto se la crescita del Prodotto interno lordo non supererà ogni previsione in modo deciso sarà pressoché inevitabile l’aumento dell’Iva dall’attuale 22% al 25%. Altro debito pubblico rispetto ai già ragguardevoli livelli raggiunti non sarà possibile emetterne, perché l’Italia entro il 2019 dovrà anzi azzerare il deficit strutturale di bilancio e perché si è impegnata a ridurre dal 135,77% attuale al 60% entro al massimo il 2035 (20 anni dopo l’entrata in vigore, nel 2015, del “fiscal compact”).
Per riuscirci sarebbe necessaria una riduzione media del debito pubblico pari al 4% abbondante in rapporto al Pil ogni anno e visto che il Pil è pari a circa 1.711 miliardi di euro l’anno, ciò significa che l’Italia dovrebbe iniziare a ridurre le emissioni di debito di circa 60-70 miliardi l’anno dall’anno venturo. Certo, è possibile che entro il 2035 l'Italia abbia ottenuto ulteriori proroghe e che il debito debba essere ridotto più gradualmente, ma pensare di continuare a sovvenzionare la crescita con nuovo debito oltre che poco efficace è di fatto impossibile.
Il momento in cui la realtà presenterà il conto alla classe dirigente italiana (e agli italiani tutti), che ha sprecato l’assist fornito in questi anni dalla Bce sui tassi di interesse sul debito, si avvicina sempre di più, ma dal “ponte di comando” non sembrano essersene accorti. O forse se ne sono accorti fin troppo bene ed hanno deciso che è meglio continuare a suonare e intrattenere i pregiati ospiti, dato che come nel caso del Titanic non ci saranno scialuppe di salvataggio per tutti?
Speriamo solo che dal mondo delle imprese, dalle giovani startup piene di sogni e speranze sino ai grandi gruppi del “made in Italy” si sappia gestire una fase che non si preannuncia facile, innovando prodotti e servizi e affermandosi su sempre nuovi mercati, così da consentire nonostante tutto al paese di continuare a crescere, o perlomeno a non decrescere. Ma chi visse sperando…