Si avvicina il definitivo downgrade del rating sovrano dell’Italia a “spazzatura” (junk)? Il sospetto è legittimo, visto che sebbene gli ultimi dati macro abbiano confermato che anche nel Belpaese sta arrivando un debole refolo di ripresa dopo due anni di recessione pesante (l’altro ieri il Pil manifatturiero era salito a 51,3 punti, sui massimi dal maggio 2011 e sopra la soglia dei 50 punti che separa le fasi di recessione da quelle di espansione, oggi il Pmi servizi è salito a 48,8 punti facendo però peggio delle attese e rimanendo sotto quota 50) la sensazione, confermata dai dati dell’Ocse e di Eurostat, è che l’Italia ne uscirà peggio degli altri paesi europei, col rischio che la distanza tra noi e i nostri partner/concorrenti aumenti anziché ridursi in un perdurante stato di scarsa attrattività per investimenti dall’estero che non siano mirati unicamente a fare shopping di marchi e tecnologie di punta di un “made in Italy” che continua a piacere nel mondo, ma che aziende, banche e sistema politico italiano fatica ogni giorno di più a far crescere come dovrebbe.
Così da qualche giorno le agenzie di rating sono tornate a fare il proprio mestiere, puntando il dito su settori e aziende strategiche per l’economia di un paese che rischia di rimanere ancora per molti mesi ostaggio delle vicende politiche e personali di un settantasettenne condannato in via definitiva per frode fiscale che non vuole farsi da parte ma che non sembra avere al momento né eredi né alternative credibili per la maggioranza dell’elettorato italiano. Ieri, ad esempio, Fitch Rating ha segnalato come una corporate governance complessa e strutture decisionali contorte stiano mettendo a serio rischio il comparto del credito popolare ed in particolare un istituto come Bpm, dove “un piccolo gruppo di dipendenti-azionisti in carica e pensionati che hanno legami stretti con i sindacati, hanno più volte bloccato proposte strategiche e di ristrutturazione”, mentre la presenza tra gli azionisti di controllo di fondazioni bancarie la cui debolezza patrimoniale è ogni giorno più evidente mettono a rischio l’operatività di una banca come Carige, dove guarda caso Banca d’Italia (che qualche giorno fa ha dovuto commissariare Banca Marche) è intervenuta, chiedendo al termine dell’ennesima ispezione della Vigilanza una radicale revisione della governance dell’istituto ligure e una discontinuità dei vertici.
Per Banca Carige, istituto “vicino” alla famiglia Scaloja, questo significa un Cda che dovrà uscire ampiamente rinnovato il prossimo 30 settembre (quando è convocata un’assemblea dei soci proprio per la nomina del nuovo board) e probabilmente un passo indietro sia del presidente dell’istituto, Giovanni Berneschi, sia del presidente del collegio sindacale Andrea Traverso. Non solo: Via Nazionale avrebbe ribadito la necessità di lanciare l’aumento di capitale da 800 milioni di euro finora rinviato e la ridefinizione del piano industriale della banca. Sia Bpm sia Banca Carige sono già in “Rating Watch Negative” (ossia è stata avviata una revisione del merito di credito con implicazioni negative e certamente un’eventuale crisi “politica” o difficoltà del governo Letta in fase di varo della prossima finanziaria non farebbero bene.
Ma non sono solo le banche a correre rischi nel caso di nuova turbolenza politica e di un eventuale downgrade del rating sovrano italiano (che porterebbe probabilmente anche ad nuovo peggioramento delle quotazioni dei Btp, di cui le banche hanno pieni i forzieri): oggi in borsa il titolo Fiat perde il 3,25% nonostante le vendite di Chrysler in agosto abbiano raggiunto quota 165 mila vetture (+12% su base annua) e l’annuncio del gruppo del raggiunto accordo coi sindacati italiani che consente a Torino di dare “inizio immediatamente al piano di investimenti necessario ad assicurare il futuro produttivo ed occupazionale dello stabilimento di Mirafiori”. Un piano che prevede poco meno di 1 miliardo di investimenti per produrre un Suv a marchio Maserati, destinato a sbarcare sul mercato nella prima metà del 2015. Sul titolo pesa infatti una nota di Moody’s nella quale si stima che la stessa Fiat assieme a Psa Peugeot-Citroen, Ford e General Motors chiuderanno il 2013 registrando per le proprie attività europee perdite complessive per 5 miliardi di euro a causa del crollo della domanda sui minimi degli ultimi due decenni.
Proprio il gruppo italiano e quello francese sono indicati da Moody’s come i maggiormente a rischio di un downgrade del merito di credito se la situazione in Europa non migliorerà nei prossimi anni. E visto che Fiat, pur tagliando i costi, ha chiuso il primo semestre con un risultato operativo (Ebit) negativo per 185 milioni di euro a fronte di 532 mila vetture vendute (-5% sui primi sei mesi del 2012) che hanno generato un fatturato di 9,13 miliardi di euro (-3%), ogni incertezza nella ripresa italiana ed europea non potrà che peggiorare la situazione, anche perché dalla semestrale è emerso come i contributi positivi dei mercati del Nafta (sostanzialmente dovuti a Chrysler) e dell’America Latina stanno frenando a causa del rallentamento della crescita di tali mercati (che comunque hanno registrato nel complesso quasi 1.400 milioni di euro di Ebit nei primi sei mesi dell’anno e un fatturato complessivo di 26,816 miliardi a fronte di 1,57 milioni di vetture vendute), mentre i mercati emergenti dell’Asia, pur in crescita, non portano ancora un contributo granché sensibile (70 mila vetture vendute in sei mesi, per 2,085 miliardi di euro di fatturato e 174 milioni di Ebit).
Se qualcuno in questo disgraziato paese ha una vaga idea di come tornare a far crescere l’economia, pur mantenendo gli impegni assunti (forse fin troppo precipitosamente) in sede Ue, sarebbe meglio che si facesse avanti e provasse a tradurre le teorie in pratica. Proviamo per una volta a far finta di essere un paese serio e smettiamola di perdere tempo discutendo di Imu, di Iva, dell'agibilità politica di Silvio Berlusconi e di altre amenità rinviando ogni riforma per mancanza di una qualsivoglia intesa. Il lasciar passare la “nuttata” non è una strategia, è la conferma che non siamo più in grado, da troppo tempo, di immaginarci un qualsivoglia futuro. I nostri figli (e noi stessi) meritano qualcosa di meglio, non trovate?