Chi non sa immaginarsi un futuro diverso dal suo passato è condannato a ripetere gli stessi errori. Anche quando prova a “curarsi”. Così la deflazione sempre più evidente nel Sud Europa altro non è che il riflesso di una cura “letale” che l’euro burocrazia fortemente influenzata da Berlino ha propinato in dosi massicce ai paesi “salvati” e sta preparandosi a propinare all’Italia, che già sembra voler varare riforme che poco hanno di strutturale se non per incidere sempre allo stesso modo come da decenni (con esiti finora a dir poco evanescenti in termini di recupero di competitività). Stiamo ai fatti: l’inflazione nell’area dell’euro è passata dall’1,7% cui si trovava nel luglio dello scorso anno allo 0,6% del mese scorso, sempre più distante dal 2% di soglia “massima” che la Bce (oltre che la Bundesbank) è pronta a tollerare a lungo termine. Perché? Perché, in base a dati Eurostat, paesi come la Grecia (dove i prezzi stanno tornando lentamente a salire solo ora ma restano in calo dello 0,8% annuo, dopo aver toccato un -2,9% annuo lo scorso novembre), la Spagna (-0,4% in luglio ma già da mesi con variazioni prossime a zero), il Portogallo (-0,7% a luglio, quinto mese consecutivo di variazioni negative su base annua dell’indice dei prezzi) e a breve l’Italia (secondo dati Istat in luglio la crescita dei prezzi al consumo si è fermata al +0,1% annuo, era pari al +1,2% dodici mesi prima e a +2,2% a gennaio 2013) sono entrati in deflazione.
Una deflazione che, non è un caso, riguarda sia i prezzi di materie prime (ed in particolare dei prodotti energetici), sia il costo del lavoro: secondo dati Merrill Lynch rielaborati da Bloomberg tra il 2011 e il 2012 le paghe sono calate in Portogallo tra il -1,6% per i lavoratori tra i 35 e i 44 anni di età e il 24,7% per quelli tra 18 e 24 anni d’età, mentre in Spagna nello stesso tempo la variazione è stata tra il -15,4% per i lavoratori di 20-24 anni e il -0,7% per coloro che hanno tra i 40 e i 44 anni. Mentre persino in Francia (dove i lavoratori oltre i 26 anni ancora hanno registrato qualche residuo aumento nel biennio) i giovan under-26enni hanno visto le paghe calare tra lo 0,7% e il 2,1%. Ora che si avvicina il varo del Def e della Legge di Stabilità 2015 e con il governo Renzi che sembra non aver condiviso le proposte di taglio di spese proposte dal commissario alla spending review Carlo Cottarelli (da molti dato nelle scorse settimane sul punto di rassegnare le dimissioni), ci si chiede quali riforme “strutturali” Matteo Renzi e il suo ministro dell’Economia e Finanze Pier Carlo Padoan (non sempre apparsi in sintonia, per usare un eufemismo) vorranno e sapranno varare, per di più con un parlamento che continua sostanzialmente a riproporre la classica divisione per lobbies che in questi decenni ha finito con l’impastoiare l’economia italiana sino ad azzerarne ogni capacità di sviluppo, tra la difesa neppure troppo “occulta” del partito dei grandi evasori (salvo reiterate crociate contro i piccoli e i piccolissimi “contribuenti infedeli”) e quella altrettanto se non più palese del partito di coloro che godono di una rendita di posizione (che siano norme anti concorrenza o la sicurezza del “posto fisso”) cui non intendono rinunciare spontaneamente né ora né mai.
Così mentre si valutano futuribili tagli alle due grandi voci di spesa del bilancio pubblico, sanità e pensioni (dove pure l’Italia non ha fatto poco in questi anni anche rispetto ai partner europei e dove è difficile pensare di poter ulteriormente ridurre “sprechi” senza andare a tagliare servizi più o meno essenziali), col rischio di produrre ulteriore deflazione (che è un male specie per un paese come l'Italia, per motivi più volti spiegati) l’unica triste certezza è che per ridurre il costo del lavoro e in questo modo cercare di recuperare parte del divario accumulato negli ultimi decenni rispetto ad altri paesi come la Germania, visto che non si è in grado di ridurre significativamente il “cuneo fiscale” nonostante se ne parli ormai da oltre due anni, visto che sperare in un “effetto fiducia” sui consumi oltre che in termini puramente finanziari (minori tassi di interesse da pagare sui titoli di stato, cosa non disprezzabile ma fortemente dipendente dall’azione incessante di distensione della Bce, di natura politica e come tale facilmente reversibile in caso di mancata “azione riformatrice”) solo grazie ai pur importanti 80 euro mensili è altamente aleatorio (anche perché non è ancora chiaro se tale misura rimarrà strutturalmente o se, quest’anno o il prossimo, dovrà essere eliminata, risolvendosi alla fine il tutto in un aumento ulteriore della tassazione visto che nel frattempo in parallelo alcune detrazioni fiscali sono state azzerate o ridotte), non rimarrà che tagliare i salari anche in Italia.
Anzi, i salari (e in compensi per le “partite Iva”) sono già in calo anche se non è facile avere un quadro preciso della situazione visto che l’Istat tiene traccia solo delle retribuzioni contrattuali (in crescita dell’1,2% a giugno 2014 su base annua), che ormai non riguardano che il 38,6% degli occupati dipendenti e che corrispondono appena al 37,9% del monte retributivo osservato. Come dire che oltre il 60% dei lavoratori dipendenti e la totalità del lavoratori indipendenti (e quindi oltre 4 milioni di “partite Iva”) sfuggono all’osservazione statistica e quasi certamente stanno già subendo da alcuni mesi (o forse da alcuni anni) una crescente pressione a ridurre i compensi richiesti in cambio di prestazioni professionali e/o di servizi. Colpire solo i salari (e i compensi) per far ripartire la crescita economica è come far pagare il conto di un tavolo a cui si sono accomodati una lunga sfilza di amici e parenti solo agli ultimi arrivati, anche perché come all’estero anche in Italia è facilmente dimostrabile che il taglio delle retribuzioni colpisce maggiormente i lavoratori più giovani e con minore esperienza. E’ il “modello Valenza” che sta lentamente erodendo le basi stesse della nostra economia, in un disperato tentativo da parte di alcuni di tenersi a galla in qualche modo, anche a costo di far saltare ogni forma di solidarietà.
Si può uscire da quest’incubo? Io credo di sì, ma bisognerebbe avere il coraggio di abbattere ogni rendita di posizione, ogni lobbies, di redistribuire equamente onori ed oneri, di rinnovare un patto sociale a fronte di una chiara visione di cosa questo Paese vuole “fare da grande”. Si potrebbe puntare sull’enogastronomia, dove abbiamo punte di eccellenza conosciute in tutto il mondo, si potrebbe far ripartire il turismo, dove da anni subiamo una concorrenza che non è solo di prezzo ma anche di qualità dell’offerta, si potrebbero recuperare lavorazioni artigianali, ridare un ruolo importante alle nostre città d’arte, rilanciare i distretti industriali della provincia italiana. Ma occorre avere una visione chiara, coagulare competenze importanti, sapersi proporre agli investitori senza guardare (solo) al loro passaporto e senza tutelare (esclusivamente) le attuali proprietà dei numerosi asset di pregio di cui questo Paese può ancora disporre. Altrimenti sarà solo una sequenza senza fine di “purghe” e medicine più o meno letali, svendite di marchi, surrogazione di credito tramite iniezioni di liquidità, il tutto in attesa dell’inevitabile default che interverrà in assenza di ulteriore crescita dato che già ora siamo oltre ogni limite di ragionevole “prudente gestione”. Ed una gestione imprudente e senza meta non può che condurre ad un triste esito, qualsiasi teoria economica riteniate di seguire.