C’era una volta la favola di una Legge di Stabilità “espansiva”, che sarebbe stata approvata “nonostante” l’ottuso rigore preteso da Bruxelles. Poi sono arrivati i voti di fiducia nella notte (curiosamente l’unico altro paese europeo ad aver avuto un simile travagliato via libera della propria legge di stabilità è l’Ucraina, che sta cercando disperatamente di riannodare i fili del discorso con l’Fmi per ottenere prestiti senza i quali l’economia di Kiev rischia grosso), il maxiemendamento “omnibus”, la necessità di attendere i decreti delegati che riempiranno le pagine bianche approvate per “disciplina di partito” da senatori e deputati italiani. E quando il polverone si è diradato qualcuno ha cominciato a fare i calcoli scoprendo che, ben che vada, la legge finanziaria italiana porterà nel 2015 a registrare “un modesto e temporaneo sforamento degli obiettivi di deficit fissati in precedenza” come scrive l’economista Francesco Daveri.
Al netto della propaganda “ignorante e arrogante” da parte del governo Renzi e dei suoi coriferi, come stigmatizza un sempre più perplesso Mario Seminerio, cosa resta delle misure “pro crescita” promesse dal premier italiano? Poco e per di più finanziato non tanto con razionalizzazioni ed efficientamenti della spesa pubblica, perché di “spending review” non si parla più se non a livello alquanto concettuale (cosa che appare ovvia, visto che andrebbe a intaccare il consenso dell’elettorato pro-Renzi) quanto con misure come l’innalzamento della tassazione sui risultati netti degli investimenti previdenziali che rischiano di rappresentare una pericolosa forma di erosione del nostro domani, per tutelare una situazione presente che presenta crescenti distorsioni che andrebbero invece ridotte, se non eliminate, al più presto.
La manovra che secondo Matteo Renzi doveva ridurre le tasse agli italiani per 18 miliardi di euro in realtà non le riduce in assoluto, ma solo procede ad una riallocazione del carico fiscale tra lavoro e risparmio (in attesa di un possibile e forse probabile nuovo incremento delle imposte indirette, a partire dall’Iva sui consumi, che le clausole di salvaguardia prevedono per il 2016 e il 2017 in caso di sforamento del deficit). La mancata riduzione delle imposte, segnala anche Daveri, “ha una sola causa: l’assenza di un taglio più incisivo della spesa pubblica, senza il quale le imposte sono destinate a rimanere dove sono anche negli anni a venire”. Per far ripartire la crescita in Italia non si può sperare solo nell’aiuto delle esportazioni, che anzi rischiano di risentire dei crescenti segnali di rallentamento delle principali economie emergenti, con la Russia che sta entrando in una recessione che potrebbe durare uno o due anni, la Cina che cresce sempre meno, i paesi legati alla produzione di materie prime già in affanno per il calo delle quotazioni di queste ultime e il gigante dell’America Latina, il Brasile, ormai in crisi conclamata.
Il tutto senza parlare di casi di crisi “periferiche” ma pur sempre significative dall’Argentina al Venezuela, oltre che naturalmente della Grecia, che come già ricordato ieri per il momento pare destinata a produrre solo un incremento di volatilità sui mercati, ma che secondo esperti come lo stesso Seminerio potrebbe sfociare in un nuovo test della credibilità delle autorità europee, che in caso di vittoria di Syriza alle elezioni di fine gennaio dovranno o respingere al mittente ogni richiesta di alleggerimento degli impegni presi dalla Grecia nei confronti dei suoi creditori internazionali (tra i quali, è il caso di ricordarlo, vi è anche l’Italia), che difficilmente rinunceranno a un solo euro se potranno evitarlo dato che di si tratterebbe di segnare perdite destinate ad esser coperte con ulteriori tagli alle spese o aumenti di imposta, o gestire il “rischio contagio” che deriverebbe dall’eventuale decisione di Alexis Tsipras (leader di Syriza) di non perdere la faccia (e la probabile premiership) e minacciare piuttosto l’uscita di Atene dall’euro e dall’eurozona (che Berlino in primis certamente non vuole, se potrà evitarla).
L’unica speranza, sia che siate “pro Renzi” sia che non crediate nella narrazione del nostro premier, è che il governo abbia azzeccato per una volta le previsioni sull’andamento del Pil (e incrociando le dita potrebbe anche averlo fatto, specie se i prezzi del petrolio resteranno sotto i 60 dollari al barile). Il Pil a prezzi correnti viene dato in crescita dell’1,2% nel 2015 per poi accelerare a +2,6% nel 2016 e a +3,1% nel 2017. Con un Pil in risalita tornerebbe a salire anche la base imponibile delle imposte generando così un andamento positivo “automatico” (ossia tale da non necessitare ulteriori inasprimenti) delle entrate fiscali. La previsione del governo, nota Daveri, “è in linea con quella che il Fondo Monetario riserva all’Italia nel suo più recente World Economic Outlook”, ma, specie per il 2016 e il 2017, appare “ottimistica se guardata con gli occhi di chi vede un’inflazione zero e un aumento del Pil in termini reali anch’esso a zero nei dati oggi disponibili”. Chi visse sperando… eppure molte alternative non se ne vedono al momento e dunque non resta che sperare. Buon anno a tutti, per ora.