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Italia impaurita, ma tornare indietro non si può

Mentre in Europa e in Italia cresce la tensione legata agli attacchi terroristici e la paura del “diverso”, appare sempre più evidente che pensare di tornare indietro a un’economia (e una società) ante globalizzazione è semplicemente privo di senso…
A cura di Luca Spoldi
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La psicosi di possibili attacchi terroristi si diffonde rapidamente in tutta Italia (ed Europa) con numerosi allarmi che per fortuna si rivelano tutti falsi nell’arco di una giornata che ha visto i mercati sonnecchiare attorno ai livelli di ieri, nonostante le ulteriori rassicurazioni di Mario Draghi circa il fatto che la Bce “farà tutto ciò che deve” per far risalire l’inflazione verso il 2% indicato come obiettivo attorno a cui mantenere la crescita dei prezzi negli statuti di tutte le banche centrali occidentali.

Con la psicosi torna, strisciante, la tentazione di isolarsi, separarsi, guardarsi intorno tenendo lontano fisicamente ed economicamente il “diverso”. Una tentazione, anche in questo caso, che non sembra essere solo italiana se è vero come vorrebbero alcuni che la Francia si prepara a chiedere al prossimo euro vertice di archiviare, almeno per qualche tempo, Schengen perché va bene il mercato, ma la circolazione di merci e persone all’interno dell’Eurozona inizia a sembrare un po’ troppo pericolosa.

Tanto più, notano alcuni, che l’idea di un’intelligence europea per il momento resta, come altre (un esercito, un’unione politica e fiscale) solo sulla carta e le elezioni amministrative che si avvicinano in molti paesi rendono più urgente, per i governi in carica, fare in modo di non regalare alle proprie opposizioni un argomento, quella della (in)sicurezza dei cittadini, che potrebbe spostare milioni di voti come e più di un punto di Pil.

Eppure tornare indietro è non solo difficile ma anche economicamente poco sensato. E’ difficile in campo monetario dove per quanto l’unione bancaria appaia ancora balbettante la moneta unica semplicemente non ha mai avuto “vie d’uscita” per chi ne fa parte. Un giorno forse potrebbe averne, ma al momento non esistono procedure concorsuali e procedere in modo unilaterale (o anche solo fare finta di volerlo fare, come la Grecia la scorsa estate) rischia di costare assai più degli eventuali benefici che potrebbe portare, anche se in tanti notano ormai apertamente che questi 15 anni di euro non hanno portato a tutti benefici, anzi ad alcuni (Italia in testa) non ne hanno praticamente portato alcuno.

Economicamente poco sensato è poi pensare a un’economia “ante globalizzazione” fatta di molte barriere e poca circolazione di merci, capitali e persone. Solo oggi Infocamere ha segnalato come a fine settembre il numero di imprese registrate in Italia che appartengono a un imprenditore immigrato nel nostro paese abbia superato la soglia delle 546 mila unità. Negli ultimi 3 anni le aziende aperte da immigrati sono cresciute del 19%, nel solo trimestre luglio-settembre il loro numero è aumentato dell’1,51%, quattro volte più del tasso medio dell’intero tessuto produttivo italiano (+0,34%).

Da dove vengono e dove si installano gli imprenditori extracomunitari italiani? Principalmente dall’India (che negl i ultimi 12 mesi ha visto salire il numero di neoimprenditori del 25,8%), dal Bangladesh (+21,1%) e dal Pakistan (+20,3%), con una predilezione per le province del Centro Nord come Lombardia (18%), Lazio (11,8%) e Toscana (9,9%), e i settori del commercio e delle costruzioni.

Se però si guarda alle oltre 430mila ditte individuali a conduzione straniera, oltre un terzo è rappresentato da tre soli paesi: Marocco, Cina e Romania rispettivamente con il 15,3%, 11,1% e 11%. La Lombardia in particolare attrae imprenditori marocchini e rumeni, ma anche albanesi, mentre la Toscana (e in particolare la provincia di Prato) è la prediletta dalla comunità cinese in Italia.

Le aziende “estere” sono più mediamente giovani di quelle gestite da italiani, se è vero che una su quattro sono gestite da under 35enni (contro il 10% delle aziende “tricolori”). In questo caso tra le attività più frequenti spiccano il noleggio, le agenzie di viaggio o quelle di servizi alle imprese (scelti dal 28% di imprenditori non italiani), l’alloggio e la ristorazione (dove un impresa straniera su 4 è under35) e le costruzioni (oltre il 24%).

In tutto in Italia erano presenti al 30 settembre scorso 124 mila imprese straniere under35, pari al 22,7% del totale, rispetto a 608.545 imprese under35 esistenti nel “bel paese”. Tutte imprese, si badi, che essendo regolarmente registrate si presume paghino tasse e contributi (visto che sono sottoposte agli stessi studi di settore e controlli di quelle avviate da imprenditori italiani) e quindi contribuiscano, tra l’altro, a pagare la pensione ai lavoratori italiani.

Si può certamente chiedere che si verifichi la provenienza (e la destinazione) dei capitali che stanno dietro queste imprese, verificare il puntuale rispetto delle normative civili, amministrative e fiscali italiane (come lo si deve chiedere anche alle aziende italiane), ma rinunciare a priori al loro apporto al Pil per un'economia e una società che continua a invecchiare e perdere colpi da oltre 15 anni appare più un'eutanasia che una soluzione in grado di offrire una qualche forma di sicurezza.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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