La vicenda Alitalia continua ad appassionare la stampa italiana, che però sembra cadere nella trappola culturale di continuare a raccontarla come la storia di un’azienda più o meno “strategica”, quando da decenni dovremmo aver capito, anche in Italia, che non esistono aziende strategiche ma settori strategici, semmai. E che non ha molto senso (salvo per il politico che così tenta di raccogliere consensi e/o l’imprenditore che così tenta di ottenere un “aiuto” di qualche tipo) buttare miliardi per salvare aziende decotte e relativi posti di lavoro, quando sarebbe meglio individuare, per tempo, su quali settori e tecnologie puntare con incentivi fiscali, premi per giovani imprese, minori adempimenti burocratici per rendere le aziende più competitive (dotandoci di un mercato del lavoro in grado di ridare prospettive a chi il lavoro lo perde). A proposito vorrei sottolineare un aspetto che non mi pare ancora colto da molti: Alitalia, come ho già raccontato, ha alle spalle una lunga (e negli ultimi 20 anni disastrosa) storia aziendale ne corso della quale i “salvataggi” sono già stati presenti.
In particolare, come ricordano oggi gli analisti del Credit Suisse in un’analisi dedicata alle implicazioni che la vicenda potrebbe avere per Air France, nel 2009 l’ex compagnia di bandiera italiana (che il Piano Fenice sponsorizzato da Intesa Sanpaolo fuse con Air One) ha già vissuto “una ristrutturazione profonda, che suggerisce come il problema della compagnia sia la generazione di ricavi piuttosto che l’efficienza di costo (un problema già evidenziato in passato da Air France)”. Pertanto la premessa per un nuovo intervento del gruppo francese (che eviterebbe ai contribuenti italiani di accollarsi l’ennesimo “salvataggio” a “babbo morto” per compiacere politici e sindacati nostrani) potrebbe e dovrebbe avvenire, secondo i colleghi del Credit Suisse, ed io sono d’accordo, solo se l’aumento da 300 milioni di euro necessario a “far volare” ancora per qualche mese gli aerei italiani fosse “la premessa per una ristrutturazione di successo” che si basasse appunto sul rilancio della compagnia e dunque sulla crescita dei ricavi (e dunque servirebbe una politica favorevole alla crescita più che tagli e austerità, ma non è una novità).
Di più: limitarsi “a tagliare le rotte in perdita non è una strada sicura verso la profittabilità, data la possibilità di “infiltrazioni” da parte di Easy Jet/Ryanair” (ossia della concorrenza) notano gli analisti che sono giustamente preoccupati (per Air France nel caso alla fine decidesse di partecipare all’aumento di capitale) per “la combinazione dell’incoraggiamento da parte del governo italiano a Poste Italiane perché prenda una partecipazione in Alitalia” e “il via libera a Emirates perché inizi a collegare l’aeroporto di New York – JFK da Malpensa, a partire da questo mese”. Due fatti che “suggeriscono che la priorità politica sia il mantenimento dell’occupazione piuttosto che la profittabilità di Alitalia”. So già che qualcuno obietterà: è giusto così, la politica non deve farsi condizionare dagli “speculatori” ma garantire prospettive alle aziende e ai lavoratori italiani. Assolutamente corretto, peccato che per farlo si siano finora utilizzati sempre soldi tirati fuori dalle tasche dei “soliti noti”, ossia dei contribuenti (onesti) italiani, senza mai badare alle premesse necessarie a far sì che le aziende “salvate” potessero reggersi in piedi autonomamente in futuro.
Chi ha fatto un rapido calcolo ha scoperto che “salvare” (si fa per dire) Alitalia ci è costato finora tra i 3,5 e i 4,5 miliardi, che “salvare” (sempre per modo di dire) l’industria del carbone del Sulcis è costato all’incirca altrettanto (3,5 miliardi tra soldi per riconvertire il territorio e gli sconti sulla bolletta elettrica pagata da Alcoa, azzerati i quali, dietro pressione Ue dato che si trattava ancora una volta di “aiuti di stato” non consentiti, il gruppo americano non ha avuto esitazione a chiudere gli impianti), che la Tirrenia è costata non meno di 500 milioni di fondi pubblici prima di passare ai privati e tornare a navigare in acque meno agitate anche finanziariamente parlando, che lo stabilimento Fiat di Termini Imerese ne ha assorbiti quasi altrettanto (ma alla fine di investitori privati non se ne sono visti nonostante le molte “promesse”). In tutto sono attorno ad otto miliardi, non proprio briciole: quando capiremo che dobbiamo investire sui progetti, sulle tecnologie, sui settori e sulle regole e non su singoli marchi o impianti o aziende? Quando i soldi (nostri) saranno finiti?
Nel frattempo consoliamoci: qualcosa si muove persino in questa “Italietta” sempre più “a misura di vecchi” e sempre più “avversa ai giovani”. E’ infatti una piccola (e giovane) azienda campana, Buzzole, ad aver vinto lo Startup Focus Program lanciato da SAP e PoliHub grazie alla capacità dimostrata (sul campo, ossia sul mercato) nel settore dei “big data” e delle analisi predittive e in tempo reale. Ed è campano il Gruppo H2biz, che in questi giorni ha formalizzato l’acquisto di InBook.tv, piattaforma di promozione per autori e professionalità legate all’editoria fondata da Lucia Montauti, operazione con la quale il gruppo guidato da Luigi De Falco fa il suo ingresso in un’arena tra le più impervie al mondo, quella dell’editoria digitale, proseguendo in una strategia di espansione verticale che ha già portato H2biz a controllare diversi brand: H2biz (internet), H2biz Aerospace (aerospazio), FashionBiz (moda), MotorSponsor (motori), EurAmerica (commercio internazionale), Outsider News (editoria) e Giano (biciclette). Insomma: piccole aziende crescono, in settori aperti alla concorrenza, persino partendo dal Sud Italia, mentre vecchi giganti malati cercano (e purtroppo a volte trovano) aiuti pubblici per tirare a campare. Al momento questa è l’Italia, bellezza. Cambierà mai?