Brutta cosa la realtà: secondo dati rielaborati dall’ufficio studi della Camera di commercio di Monza e Brianza sulla base dei numeri del Registro Imprese, nei primi cinque mesi del 2014 le procedure fallimentari sono aumentare in Italia del +18,9% rispetto allo stesso periodo del 2013. Per la precisione da gennaio a maggio in Italia hanno tirato giù le serrande 6.342, pari a oltre 1.200 fallimenti al mese. Un bollettino di guerra che mostra forti variazioni a livello territoriale. L’aumento maggiore di fallimenti si registra in Abruzzo (+67,1% rispetto allo scorso anno), seguono la Liguria e l’Umbria dove gli incrementi sono pari rispettivamente al +46,2% e al +44,4%. In termini assoluti l’incidenza più elevata di fallimenti si registra in Lombardia, dove nei primi cinque mesi dell’anno sono state avviate 1.404 nuove procedure fallimentari (+15,9% rispetto al 2013). Dietro la Lombardia in questa classifica “lacrime e sangue” seguono Lazio, Veneto e Campania.
Dite voi che la nostra “classe digerente” mostri qualche preoccupazione per questi dati, che fanno il paio con quelli di Abi relativi all’andamento delle sofferenze bancarie, ossia quei prestiti che mai torneranno nelle casse di chi li ha prestati (secondo l’Associazione delle banche italiane a fine aprile le sofferenze lorde sono salite a 166,4 miliardi, 1,8 miliardi più di marzo, aumentando del 25% su base annua, poco meno del +27,2% di fine marzo, raggiungendo l’8,8% dei prestiti totali, il valore più alto mai toccato dall’ottobre 1998)? Dovrebbe e dovrebbe essere concentrata giorno e notte a cercare una via d’uscita alla crisi che le cattive scelte politiche europee hanno esacerbato in particolare per un paese come l’Italia che negli anni ha accumulato un debito pubblico “monstre” ampiamente superiore al 130% del suo striminzito Pil (quando le best practices vorrebbero che fosse mantenuto attorno al 60% del medesimo per non correre rischi eccessivi), ma così non sembra essere.
Il ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, intervistato dal quotidiano francese le Figaro, fa la ruota e spiega come l’Italia voglia far passare, in Europa, un concetto di “patto di stabilità intelligente”, in teoria una rivoluzione visto che a norme invariate si vorrebbero sfruttare i “molti margini di manovra” che le norme medesime consentono. Margini di manovra, par di capire, grazie ai quali si riuscirebbe finalmente a far partire quella crescita che è latitante da oltre 15 anni nel “Bel paese”. Basterebbe, spiega Padoan, “valutare positivamente i paesi che mettono in opera le riforme strutturali” (come l’Italia?), perché “gli effetti positivi sulle finanze pubbliche sono reali, ma giungono in tempi abbastanza lunghi”. Visto come stanno continuando a deteriorarsi i bilanci di banche e imprese (le prime se non altro in grado di attingere ai mercati finanziari per ricapitalizzarsi, le seconde sempre più soffocate da una “stretta del credito” che non dà segni di allentarsi) sembra che il rischio che l’operazione riesca ma il paziente muoia sotto i ferri sia quanto meno elevato.
Ma quali “riforme strutturali” potranno allentare la sofferenza di banche e aziende? Ci si augurerebbe una riforma del credito, ma non ve n’è traccia (anche in questo caso a muoversi è la realtà, con una discreta ma non così invisibile crescita, anche in Italia, di uno “shadow banking system” che vede le società di wealth e asset management e le reti di private banking offrire ormai anche servizi di erogazione crediti a quella parte della clientela, di solito piccoli e medi imprenditori, cui le banche tradizionali da tempo hanno staccato la spina). Dovrebbe essere una maggiore apertura alla concorrenza e un sostegno all'innovazione. Macchè. La sola cosa che sembra “marciare”, per modo di dire visto che tutto è stato rinviato a dopo l’estate, è la riforma del mercato del lavoro che il “Job Act” dovrebbe ridisegnare.
Cosa si prepari per i lavoratori italiani, o almeno per la maggior parte di essi, vista ad esempio la pervicacia con cui alcuni sindacati fanno barricate ad ogni ipotesi di ulteriori esuberi in aziende in crisi come Alitalia oppure l’efficace tutela corporativa con cui la magistratura smonta puntualmente ogni ipotesi di modifica dell’attuale inquadramento, è ancora presto per dirlo. Secondo un osservatore attento come Mario Seminerio almeno un paio di ipotesi sono possibili al momento, ossia un salario minimo “competitivo” (ossia basso abbastanza da non portare a ulteriori massicci esuberi) e il taglio dei livelli di contrattazione (che si ridurrebbero al livello aziendale e forse territoriale). Il tutto con lo scopo di recuperare quella produttività/reddività che manca all’Italia tagliando in buona sostanza il costo del lavoro.
Non riuscendo stimolare l’innovazione, non sapendo attrarre investimenti diretti dall’estero, non potendo spremere più di quanto già non si faccia l’export (che oltretutto dipende sempre dalla crescita altrui), si taglia il costo del lavoro. Ecco la grande riforma strutturale, cui magari seguirà un ulteriore taglio delle pensioni, già che ci siamo e nonostante che la spesa pensionistica non appaia particolarmente disallineata dalla media europea. Ipotesi personale: quando raggiungeremo finalmente la “luce in fondo al tunnel” e le aziende finiranno di fallire e le banche di ridurre il credito, scopriremo che in Italia un lavoratore guadagna mediamente 700-800 euro netti al mese (il milione e mezzo di lirette di una volta), con meno oneri sociali (previdenza e assistenza, ma anche ammortizzatori vari) di prima. Spero ovviamente di sbagliarmi alla grande, che Padoan e Renzi sappiano giocarsi bene il semestre italiano di presidenza della Ue e che il latte torni a scorrere nei ruscelli e il miele a colare dalle piante. Per il momento però così non è.