Mentre sui giornali tiene banco l’ipotesi di un intervento armato degli Stati Uniti in Siria, ipotesi che fa tremare le borse mondiali non fosse altro perché i precedenti storici non sono molto incoraggianti riguardo all’efficacia di una simile azione e per i rischi di indebolire un regime che per quanto molto poco “democratico” appare più vicino all’Occidente di quanto non possano esserlo i gruppi ribelli che si battono contro Assad con l’aiuto più o meno esplicito di gruppi terroristici e “stati canaglia”, sui mercati asiatici le difficoltà dei paesi emergenti di cui già vi ho accennato ieri appaiono sempre più evidente. In particolare oggi la rupia indiana ha perso il 3,1% contro dollaro, il calo su base quotidiana più marcato degli ultimi 20 anni, mentre anche azioni e titoli di stato continuano a perdere terreno.
A dare il là a quella che ex post potrebbe rivelarsi lo scoppio della “bolla” indiana è stata alcune settimane fa la Federal Reserve, facendo capire di essere pronta a ridurre gli stimoli monetari all’economia americana (e per bocca di numerosi suoi esponenti facendo ancor più chiaramente intendere, lo scorso fine settimana nel tradizionale summit annuale di Jackson Hole, di non essere al momento troppo preoccupata per le eventuali ripercussioni che tale mossa potrebbe avere sul resto del mondo, sviluppato o emergente che sia). La crisi siriana che ha fatto schizzare nuovamente alle stelle (il future sul Wti texano oscilla sui 110-111 dollari al barile, quello sul brent è ormai attorno ai 116 dollari al barile) ha completato l’opera, accelerando la fuoriuscita di capitali esteri dall’India, in un momento in cui la seconda maggiore economia asiatica dopo la Cina stava già affrontando un progressivo deteriorando la bilancia delle partite correnti del paese.
Problemi degli indiani, dirà qualcuno. Sbagliato, perché l’Italia, come ricordano i dati della Sace, è il quinto partner commerciale europeo dell’India alle spalle di Germania, Belgio, Gran Bretagna e Francia ma già lo scorso anno le esportazioni italiane in India (3,35 miliardi di euro) hanno segnato una contrazione del 10% (mentre le importazioni dall’India, 3,75 miliardi, sono calate di circa il 21%). Le aziende italiane sono particolarmente presenti nel settore della meccanica strumentale (mentre i prodotti tessili e del comparto moda sono i beni più importati dall’India e al tempo stesso delle sue importazioni dal Belpaese); in tutto dovrebbero essere circa 400 le società e gli stabilimenti italiani in India, con gruppi come Fiat, Ferrero, Perfetti Van Melle, Lavazza, Piaggio, Prysmian, Maire Tecnimont, Techint, Luxottica, Generali, Danieli, Brembo, Finmeccanica e StMicroelectronis che da tempo sono presenti sul mercato indiano.
Un brusco “sgonfiamento” della bolla indiana, il cui Pil lo scorso anno è cresciuto “appena” del 3,3% ma che dovrebbe, salvo appunto un avvitamento della crisi, tornare a crescere tra il 6% e il 7% nel prossimo biennio, mette dunque a rischio una parte dei fatturati e degli utili di grandi e medie imprese tricolori, in un momento in cui già di crescita in Italia non se ne vede e in Europa si intravede a malapena. Sarebbe dunque il caso che politici, banchieri e imprenditori italiani iniziassero a tener d’occhio Nuova Dheli per prevenire situazioni di difficoltà ed eventualmente approfittare dell’empasse in cui potrebbe cadere qualche concorrente per guadagnare quote di mercato, ad esempio nei settori dell’arredo, del design, della moda ma anche delle infrastrutture stradali e ferroviarie, che appaiono tra i più promettenti.
In caso positivo se ne gioverebbe l’economia indiana e quella italiana pure, molto più che a perder tempo parlando di Imu, di Iva, di tagli alle auto blu e di amenità del genere di cui gli italiani leggono puntualmente sui giornali al rientro dalla proprie ferie ormai da anni. Altrimenti il consiglio, per tutti, è quello di tenere d’occhio gli ulteriori sviluppi della crisi indiana (e dei mercati emergenti in genere), evitando magari di investire in fondi o strumenti finanziari legati a tali mercati finchè le cose non si saranno stabilizzate, auspicabilmente entro i prossimi 6-12 mesi.