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Il petrolio è destinato a rimanere l’incubo dei mercati per diverso tempo

Petrolio che tenta un debole rimbalzo grazie all’ottimismo dell’Opec su una riduzione della produzione dei paesi non-Opec nel 2016. Ma intanto l’Iran si prepara ad inondare col proprio greggio il mercato…
A cura di Luca Spoldi
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La confusione è grande sotto i cieli dei mercati finanziari anche oggi, con una settimana che sembra destinata come le due precedenti a vedere le borse soffrire nuovi ribassi legati ai dati macro cinesi e all’andamento del prezzo del petrolio. Proprio quest’ultimo sta ancora una volta tentando se non una risalita almeno uno stop alla discesa, grazie alla previsione dell’Opec di un calo della produzione dei paesi non-Opec nel corso dell’anno che va a equilibrare, per quanto in modo precario, il fatto che l’Iran abbia già fatto sapere di voler recuperare rapidamente almeno 500 mila barili al giorno di export di prodotti petroliferi, dopo che sono scadute le sanzioni occidentali che avevano ridotto a un milione di barili al giorno scarsi l’export, contro i 2 milioni al giorno di fine 2011.

La volatilità di uno scenario fortemente influenzato da decisioni “politiche” come la scelta dell’Arabia Saudita, ormai da oltre due anni, di mantenere la propria produzione al massimo ignorando la caduta dei prezzi pur di spiazzare i concorrenti occidentali (e russi, a loro volta sempre più in crisi) o il braccio di ferro in corso tra la stessa Arabia Saudita e l’Iran per il predominio geopolitico sul Medio Oriente, attraverso l’appoggio delle fazioni sunnita e sciita della secolare diatriba intra-islamica, porta il Brent del Mare del Nord a risalire attorno ai 29 dollari al barile, qualche centesimo meglio di venerdì, dopo un massimo in mattinata di 29,45 dollari, mentre il Wti texano oscilla attorno ai 29,33 dollari al barile, una manciata di centesimi meno dell’ultimo fixing di venerdì.

La situazione sta generando dei veri e propri “non sense”: negli Stati Uniti Flint Hills Resources, raffineria che fa parte del gruppo industriale dei fratelli miliardari Charles e David Koch, ha segnalato che avrebbe pagato, venerdì, -0,5 dollari al barile (ossia avrebbe chiesto mezzo dollaro al barile per ritirarlo) il greggio denominato North Dakota Sour, una qualità ad elevato tenore di solfuri che lo scorso anno veniva pagato 13,5 dollari al barile (dopo aver toccato i 47,6 dollari al barile nel gennaio del 2014). Un caso estremo, dovuto alla mancanza di capacità di raffinazione per quella particolare varietà che dunque al momento non ha praticamente mercato.

Ma è anche un caso indicativo di come sia difficile in questo momento per molti produttori vendere ai principali gruppi di raffinazione le proprie produzioni, con l’unica alternativa di bloccare l’estrazione in attesa di un recupero delle quotazioni in futuro. Lo stesso accade naturalmente anche per altri produttori fuori dagli Usa, come in Canada dove il prezzo del bitume è calato di circa 80 dollari al barile negli ultimi due anni toccando gli 8,35 dollari la scorsa settimana. Il prezzo del greggio non è infatti univoco e dipende dalla quantità di solfuri presenti (e dunque dalla più o meno elevata necessità di raffinazione del prodotto) e dalla distanza dei giacimenti rispetto agli impianti di raffinazione e distribuzione.

Ogni produttore subisce dunque un impatto differente dalla guerra dei prezzi petroliferi, così come differenti sono i benefici per i raffinatori. La Saras dei fratelli Moratti ha ad esempio segnalato oggi che il margine di raffinazione medio dell’area Mediterraneo è salito la scorsa settimana a 5 dollari al barile dai 4,20 dollari della settimana precedente, tornando sui livelli record dello scorso anno. C’è poi chi deve fare i conti con ulteriori fonti di volatilità, come Saipem, che da tempo è tenuta sotto osservazione non solo per verificare la tenuta delle commesse, alcune delle quali “saltate” in questi ultimi anni, come quella per l’oleodotto russo verso l’Europa, South Stream (salvo una possibile partecipazione “compensatoria” al raddoppio dell’altro oleodotto russo verso l’Europa, North Stream), ma anche perché gli analisti si attendono a breve il lancio di un aumento di capitale che potrebbe valere anche 3,5 miliardi rispetto ai 3 miliardi scarsi di capitalizzazione attuale.

Insomma: tra dati fondamentali relativi all’andamento futuro di domanda e offerta, fattori geopolitici, specificità dei singoli gruppi del settore, le prospettive per l’industria dell’oro nero (e di conseguenza anche delle energie rinnovabili, sempre meno competitive via via che il prezzo delle fonti fossili si riduce) non sono certo delle migliori e la volatilità è destinata a rimanere ancora per molte settimane o mesi un tratto distintivo dei mercati finanziari dove titoli di debito e di capitale di tale industria vengono scambiati.

Con la possibilità, peraltro, che l’uscita di scena degli operatori minori, che probabilmente si inizierà a vedere già nel corso di quest’anno, possa contribuire a stabilizzare il quadro e a far poi recuperare i prezzi nel corso della seconda metà dell’anno o del 2017. Sempre che l’economia cinese e mondiale non rallenti ulteriormente. L’unica cosa certa, a questo punto, è che il petrolio e l’andamento erratico del suo prezzo è destinato a turbare il sonno degli investitori e dei mercati ancora per diversi mesi.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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