Il mercato unico europeo, ossia l’area di libera circolazione di merci e servizi, ha fatto bene o ha fatto male? Secondo uno studio della Fondazione Bertelsmann ampiamente rilanciato dalla stampa italiana ha fatto bene sicuramente, ma ha fatto bene più ai paesi del Nord Europa come Germania e Danimarca che alla periferia Sud. Secondo questa ricerca in particolare tra il 1992 e il 2012 il Pil tedesco sarebbe cresciuto (grazie al processo di integrazione) di 37 miliardi di euro l’anno, pari a un aumento di 450 euro annui pro capite. I danesi avrebbero visto le proprie tasche “appesantirsi” di 500 euro l’anno, gli austriaci di 280 euro, i finlandesi di 220 euro e gli svedesi di 180 euro. Per gli italiani l’effetto benefico del mercato unico sarebbe stato molto più modesto, solo 80 euro l’anno per italiano, in media. Meno di noi avrebbero “guadagnato” solo spagnoli, portoghesi e greci (per tutti solo 70 euro a testa di guadagno), oltre agli inglesi (con soli 10 euro a testa di guadagno, ma sarebbe forse il caso di ricordar che la Gran Bretagna non fa parte dell’area dell’euro, a differenza degli altri paesi considerati).
Quello che lascia francamente perplesso in una notizia del genere è che se l’analisi sembra partire da una base del tutto razionale, l’integrazione economica “con l’eliminazione delle tariffe doganali può incoraggiare la crescita economica tramite più canali” (cosa che è noto da decenni nonostante qualche “statista” periodicamente suggerisca di tornare ai “dazi doganali” per far ripartire l’economia domestica, che è un po’ come suggerire di tornare al motore a vapore per far correre le nostre automobili se la benzina costa troppo… a proposito vi siete accorti che il prezzo del petrolio è di nuovo sotto i 100 dollari la barile?), ma arriva a risultati contrastanti che sembrerebbero dare ragione a chi sospetta che, in fondo, l’euro, l’eurozona e il mercato comune sono una “diabolica macchinazione” ordita dai paesi del Nord Europa per depredare il Sud e l’Italia in particolare. Non è ovviamente così ed è facile capire il perchè.
Dalla ricerca stessa si evince come nei dodici anni presi a riferimento (ma poi perché proprio questo periodo e non un altro? Come sa ogni ragazzo che abbia fatto le frazioni se si cambia il denominatore, ossia il dato di partenza, il risultato di un rapporto può variare e di molto) sono stati proprio Germania e Danimarca a compiere il maggior sforzo in termini di integrazione (passando da un livello dell’indice di 49 a 76,3 nel caso tedesco, da 45,6 a 68,7 in quello danese), mentre in Grecia si è addirittura assistito a un arretramento (nel 1992 l’indice di integrazione dell’economia di Atene era pari a 47,6, nel 2012 era caduto a 33,9) e in Italia pur migliorando si è passati da 58,9 a 69 punti (facendosi dunque scavalcare dalla Germania e raggiungere dalla Danimarca). Che i benefici in termini di maggior crescita economica dipendano dalla capacità di un paese di integrarsi sempre di più (in Europa e a livello mondiale) in un’economia sempre più priva di barriere è evidente anche per gli analisti di Bertelsmann che infatti concludono: “In media, più un paese incrementa la sua interconnessione col resto del mondo, maggiore sarà la sua crescita economica”, ma poi non spiegano come sono giunti, analiticamente, a dimostrare quello che sembra buon senso comune.
Il buon senso a volte è fuorviante, perché porta a trascurare i dettagli (nei quali secondo saggezza popolare si nasconde il diavolo): sarebbe dunque utile chiedersi quali sono le precondizioni per potersi maggiormente integrare e sfruttare i benefici del nuovo “ordine economico mondiale”, che piaccia o meno esiste ed è destinato a proseguire con o senza l’Italia o altri paesi. A penalizzare le performance del Bel Paese e delle sue aziende sono vari fattori: anzitutto fattori culturali. Non si può pensare di guardare al futuro e recuperare spazi di mercato (e opportunità di lavoro e di guadagno) se si continua a investire quasi unicamente in settori maturi e a basso valore aggiunto, cercando di competere solo sul costo del lavoro. La Cina ci riesce benissimo, la Germania benino, l’Italia non è mai stata storicamente in grado di farlo (e francamente dubito, né mi auguro, che possa diventarlo in futuro). Se non altro perché sul costo del lavoro italiano, a differenza di quello cinese o tedesco o finanche americano, inglese, francese, giapponese, pesa un cuneo fiscale che si è più volte detto di voler ridurre ma che è sempre lì, i famosi “80 euro al mese” messi per il momento in busta paga a una decina di milioni di lavoratori dipendenti dal governo Renzi non andando minimamente a incidere su tale voce.
Se e quando capiremo che si dovrà puntare sulle eccellenze italiane, sul turismo, sulla cultura, sulla capacità dei nostri artigiani e artisti di creare manufatti pregiati che il mondo prova a imitare ma non riesce (per ora) a riprodurre forse saremo a un buon punto di partenza. A quel punto si dovrà iniziare a lavorare sulla struttura produttiva e organizzativa: le nostre aziende sono quasi sempre “micro aziende”, non solo Pmi, le nostre partite Iva nascondono spesso una formidabile asimmetria in termini di forza contrattuale tra i “clienti” (che spesso sono di fatto datori di lavoro) e gli “imprenditori” (che in molti casi altro non sono se non dipendenti e collaboratori “in outsourcing”). L’energia che le nostre aziende, micro, piccole, medie o grandi che siano, pagano è poi superiore a quella che pagano i loro concorrenti: colpa ancora una volta del fisco ma anche della scarsa apertura del mercato che limita la concorrenza e i relativi benefici, garantendo rendite di posizione agli (ex) monopolisti come Enel ed Eni, peraltro diventati più efficienti in questi ultimi decenni grazie all’apertura del capitale e allo sbarco su mercati internazionali.
Ultimo ma non meno importante (anzi): il credito in Italia costa mediamente più che all’estero, le nostre banche sono mediamente più inefficienti, ci sono mediamente più resistenze che altrove ad adottare nuovi modelli organizzativi e di distribuzione dei servizi (pensate a quanto tempo avete buttato l’ultima volta che avete dovuto andare in banca per fare qualche operazione, o pensate a quanto vi costa un fondo comune o una polizza assicurativa distribuita tramite sportelli, reti agenziali o promotori finanziari, tutti evidentemente in conflitto d’interesse con l’assicurato/il risparmiatore, nonostante fiumi di dichiarazioni in senso contrario). Tutti questi sono i fattori che rendono così differente il grado di produttività di un’azienda italiana, il ritorno di un investimento in Italia, le prospettive di crescita del paese rispetto ai suoi concorrenti.
Bene, anzi male: all’economia non può fregar di meno che il Senato sia composto da senatori (a vita o meno), da rappresentanti regionali, che sia composto da 150 o 315 o 200 membri. Interessa invece che la pubblica amministrazione sia efficiente, le leggi certe e in grado di tutelare i diritti, riequilibrando là dove necessario situazioni di asimmetria informativa e di evidente squilibrio dei poteri in campo. Il resto è francamente aria fritta, che siano analisi della Fondazione Bertelssman, le chiacchiere che da anni si fanno sul “rilancio” (sigh) di Alitalia o i peana per la sorte dell’Ilva di Taranto o dell’(ex) stabilimento Fiat di Termini Imerese. Il fatto che non lo si capisca dà la misura di quanto questo paese è destinato a soffrire ancora per colpa di una crisi che è scatenata da cause esterne ma si sta protraendo per motivazioni in ampia parte endogene, col rischio sempre più evidente che quando (forse) avremo fatto qualche passo in avanti non ce ne accorgeremo, perché sarà già iniziata una nuova recessione mondiale.