E’ giusto tutelare tutti i 12.500 obbligazionisti rimasti coinvolti nel crack delle quattro banche “risolte”, avendo sottoscritto complessivamente 431 milioni di euro di bond subordinati? Certamente no, perchè azzererebbe ex post quasi ogni rischio corso (il che sarebbe stato corretto solo a fronte di un rendimento pari quasi a zero), come appare francamente assurdo proporre un divieto al collocamento di strumenti che per quanto rischiosi sono per definizione meno “a rischio” di una qualsivoglia azione ordinaria o di risparmio anche del più solido tra gli emittenti quotati sulle borse mondiali, perchè investire è e deve rimanere un’attività consapevole.
E’ giusto quanto meno trovare il modo di rimborsare i 1.010 piccoli risparmiatori che hanno una concentrazione di bond subordinati superiore alla metà del proprio patrimonio (comunque inferiore ai 100 mila euro), per un controvalore complessivo di 27 milioni di euro secondo quanto hanno segnalato in un una nota congiunta le quattro “bridge banks”, ossia Nuova CariFe, Nuova CariChieti, Nuova Banca Marche e Nuova Banca Etruria?
Si può discutere, ma oggettivamente sarà difficile andare al di là di una tutela legata all’accertamento caso per caso di comportamenti illeciti da parte dei funzionari delle banche che “rifilarono” il titolo sbagliato all’investitore sbagliato. Si sono invocati criteri “umanitari”, per cercare di non farsi subito bacchettare dalla Commissione Ue che come noto non consente aiuti di stato né propri né impropri se non concordati.
Ebbene, dai numeri che circolano, ossia 100 milioni di euro per un fondo “salva risparmiatori” che verrebbero ancora una volta girati dal Fondo Interbancario di tutela dei depositi, si potrebbero considerare “a prescindere” meritevoli di un intervento di solidarietà non solo i sopra accennati 1.010 casi più esposti, ma anche circa il 78% dei casi “medi” (altri 1.484 risparmiatori che hanno nel complesso sottoscritto 93 milioni di bond subordinati).
Sarebbero i cittadini “che hanno investito in modo inconsapevole” in tali strumenti, come ha dichiarato ieri il ministro alle Infrastrutture Graziano Delrio, anche se la definizione fa sinceramente accapponare la pelle: c’è infatti da chiedersi se nel 2016 sia ancora corretto tutelare ex post investitori “inconsapevoli” o non sia finalmente il caso di varare un piano di seria educazione finanziaria della popolazione, visto che l’Italia risulta avere al riguardo una istruzione media inferiore a quella della Grecia.
Altro dubbio: ma se tutta la procedura di “bail in” che da gennaio sarà obbligatoria doveva (deve) servire per evitare di trasformare puntualmente in oneri pubblici, ossia spalmati su tutti i contribuenti, i buchi “privati”, perchè si insiste a utilizzare fondi pubblici e in particolare il Fondo Interbancario, che viene alimentato da contributi obbligatori (cosa che facilmente porterebbe la Commissione Ue a giudicare qualsiasi fondo “salva risparmiatori” creato con tali contributi una forma di aiuto pubblico non consentito) e dovrebbe tutelare non i risparmiatori ma i depositanti sino al limite dei 100 mila euro?
Se l’esigenza è quella di mutualizzare le perdite del settore privato, ammesso che abbia senso in un paese che già troppe volte ha privatizzato gli utili e mutualizzato perdite di ogni genere e dimensione, non si sarebbe fatto prima e meglio ad avanzare in sede di discussione europea delle norme le eccezioni che ora sembrano più che degne di tutela? Eppure i rappresentanti in Europa di tutte le forze politiche in parlamento, dalla maggioranza alle opposizioni, hanno votato all’epoca a favore o si sono astenuti.
Del resto il problema, per i paesi ad elevato debito pubblico come l’Italia, è che alla fine non si potrà comunque salvare tutti attraverso fondi direttamente o indirettamente pubblici, occorrerà che le perdite siano subite anche dagli investitori privati, consapevoli o inconsapevoli che siano e che dunque la tutela del risparmio venga affidata a controlli ex ante e non a salvataggi ex post. Ma per questo come detto servirebbe una maggiore educazione finanziaria nel paese, cosa che finora nessuno ha avuto interesse a varare.
Del resto mentre si discute di come salvare gli obbligazionisti coinvolti nella vicenda delle quattro banche “risolte”, c’è già una quinta che bussa a denari, ossia Banca Tercas (che a sua volta controlla Caripe), commissariata fin dal 2012 e che dallo scorso anno è finita sotto Banca popolare di Bari. Per l’istituto pugliese è stata la ventesima acquisizione di una campagna acquisti partita nel 1989 che ha portato la banca a superare, unica al Sud, gli 8 miliardi di euro di attivi, tanto da risultare tra i soggetti della riforma del settore bancario popolare che il governo ha varato negli scorsi mesi.
Per intervenire Popolare Bari si avvalse di 265 milioni di euro del Fondo Interbancario per quanto riguardava la copertura del deficit patrimoniale e di 35 milioni di garanzia a fronte del rischio relativo a crediti derivanti da finanziamenti erogati, con un ulteriore impegno per massimi 30 milioni per la copertura parziale dell’ulteriore deficit. Poiché i contributi al Fondo Interbancario sono come detto obbligatori si ha la necessità di sostituirli anche in questo caso attraverso uno schema “volontario”.
Per questo il fondo di “solidarietà” (o i fondi se saranno più d’uno) dovrà essere ben capiente (400 milioni) e vedere l’adesione di almeno il 90% delle banche consorziate aventi depositi protetti, che rappresentino almeno il 95% del totale degli stessi depositi, mentre fino a venerdì scorso si sarebbe arrivati a poco più di un 50% di adesione. Serve, non ultimo, la certezza del trattamento fiscale del fondo/schema così da garantire la sostanziale neutralità rispetto al sistema obbligatorio (i salvataggi fatti grazie ai contributi del Fondo Interbancario).
Per questo l’emendamento alla legge di Stabilità con cui il governo punta a costituire il fondo preveda la deducibilità fiscale dei costi connessi alle contribuzioni, agli interventi e al funzionamento del fondo stesso. Alla fine sarebbe una partita di giro, ma la sensazione che rimane è che di risorse per mettere in sicurezza tutte le banche pericolanti non ve ne siano e che si debba confidare ancora una volta nella buona sorte, sperando che il Pil continui a crescere, le entrate fiscali pure e le sofferenze rallentino la crescita fino ad invertire il trend, magari consentendo anche un’accelerazione della dismissione di portafogli di crediti non performanti sul mercato.
In questo caso si spezzerebbee una volta per tutte (forse) la spirale mortale di questa lunga crisi banca-sovrana che l’eccesso di rigore fiscale e l’insipienza politica nell’attuare riforme strutturali nel giusto ordine oltre che con un’adeguata capacità di esecuzione hanno finora contribuito a prorogare anziché risolvere. Ma anche la tendenza degli stessi risparmiatori a “rendersi conto” della pericolosità dei propri investimenti solo a danno fatto non ha certo fatto montare una sufficiente pressione sulla classe politica per accelerare i tempi di una svolta per quanto riguarda le politiche e la struttura del mercato del credito che ancora deve vedersi.