E’ il debito la preoccupazione che continua a turbare i sonni degli investitori di tutto il mondo, debito che poi non è altro che “l’altra faccia” della crescita perché se non c’è abbastanza crescita neppure tassi vicini o sotto lo zero sembrano sostenibili indefinitamente, mentre se c’è crescita non spaventano neppure tassi ben più elevati degli attuali. Cerchiamo di capire meglio questa “bomba a orologeria” che grava sul futuro di tutto il pianeta, dalla Cina all’Italia.
Proprio nel giorno in cui il Tesoro italiano ha collocato la prima tranche (per un importo di 9 miliardi di euro a fronte di richieste superiori ai 20 miliardi e rispetto ai 6,5 miliardi della prima tranche del Btp settembre 2046 collocata poco più di un anno fa) del nuovo Btp a 30 anni, scadenza 1° marzo 2047, con un tasso lordo annuo all’emissione pari al 2,758%, il debito cinese torna a far paura. Nell’ultimo anno Standard & Poor’s ha peggiorato il giudizio su 13 società cinesi, migliorandolo solo su 1 società, il peggior rapporto promozioni/bocciature degli ultimi 10 anni.
Al momento circa 22,6 miliardi di bond “offshore” (ossia scambiati sui mercati finanziari internazionali) stono appena un gradino sopra il livello “junk” che farebbe scattare vendite automatiche da parte di tutti quegli investitori istituzionali che per statuto non possono investire in titoli “spazzatura”, ma che, come già spiegato ieri, in un mondo di tassi che restano bassi e potrebbero scendere ancora, almeno in Europa e in Giappone, sono preoccupati circa la capacità di rispettare gli impegni presi a scadenza con i risparmiatori.
Gli stessi titoli di stato italiani, a questi livelli, fanno certamente piacere al debitore, ossia allo stato italiano, ma molto meno ai creditori (ossia a banche e assicurazioni e alla loro clientela), visto che un Btp decennale italiano rende stasera l’1,48% lordo annuo, un tasso “cospicuo” agli occhi di molti tesorieri visto che i titoli tedeschi di analoga durata, i Bund, rendono appena lo 0,3%, ossia lo 0,2% in termini reali (rispetto all’inflazione di dicembre), un livello troppo basso per garantire un investitore anche solo dal possibile graduale rialzo dell’inflazione, che anche la Bce (come tutte le altre banche centrali) desidererebbe vedere attorno al 2% annuo.
Certo, ai livelli attuali di inflazione e rendimento i Btp italiani a lunga e lunghissima scadenza rendono ancora abbastanza rispetto ad impieghi alternativi, tanto più che finché non si troverà una soluzione per il problema degli Npl (i “non performing loans” ossia i crediti problematici che rischiano di non tornare più indietro in parte o del tutto) è illusorio pensare che le banche possano ridurre l’investimento nei comunque poco attraenti (in assoluto) titoli di stato per finanziare la crescita erogando nuovi prestiti a imprese e famiglie o finanziando startup e aziende grandi e piccole.
L’azione delle banche centrali in termini di tassi si è spinta più oltre di quanto non ci si potesse immaginare pochi anni fa e difficilmente, anche se dovesse essere proseguita ulteriormente, sarà in grado di rendere la crescita più solida e ampia, così da consentire buoni ritorni sui capitali investiti e la riattivazione di un circolo virtuoso potenzialmente in grado di generare, tra l’altro, nuovi investimenti e nuova occupazione. Cosa servirebbe? Una serie di riforme che, ad esempio, rendano più certa la tutela dei diritti dei creditori, ma anche una maggiore tutela della concorrenza (in particolare di quella fatta da aziende che rispettano la legislazione, rispetto a chi cerca scorciatoie di ogni tipo, quando non è colluso con organizzazioni criminali).
I passi finora fatti dal governo italiano, per quanto positivi, sono giudicati ad esempio da Standard & Poor’s ancora troppo timidi per poter produrre effetti significativi nel breve periodo, a differenza di quanto accaduto in paesi come la Spagna o l’Irlanda che hanno saputo e potuto creare degli organismi specializzati (la Sareb e la Nama, rispettivamente) che per quanto di proprietà privata hanno visto coinvolti i rispettivi governi con quota di minoranza molto consistenti (il 45% nel caso di Sareb, il 49% per Nama).
S&P’s in un report diffuso oggi sottolinea peraltro come le banche irlandesi e spagnole abbiano dovuto svalutare in maniera significativa i propri prestiti al settore immobiliare e delle costruzioni (in media del 58% in Irlanda e del 53% in Spagna, in questo caso incluso i crediti in bonis), prima di ceder gli asset alle rispettive “bad bank”. Come risultato delle forti perdite che hanno dovuto mettere a bilancio,diverse banche hanno dovuto essere ristrutturate e ricapitalizzate.
Al riguardo in Italia sembra del tutto mancare, ancora, la volontà politica di procedere a tale operazione di trasparenza e ristrutturazione e, forse, la capacità di reperire risorse per poter agire in tal senso, accettando in molti casi di veder passare il controllo da soggetti legati alla politica come istituzioni locali e sindacati a soggetti privati, nazionali od esteri.
In una situazione simile non deve stupire che i mercati si muovano con violenza subendo improvvise accelerazioni al ribasso, come oggi, e che a farne le spese siano proprio i titoli di banche e di soggetti fortemente indebitati o che hanno lanciato, come Saipem, operazioni di ricapitalizzazioni che in altri tempi sarebbero state sottoscritte a occhi chiusi, mentre ora faticano a concludersi positivamente nonostante siano assistite da consorzi di sottoscrizione e collocamento.