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Opinioni

Il caso Fiat mette a nudo i limiti del sistema Italia

Il caso di Fiat che minaccia di chiudere “almeno” un altro stabilimento in Italia è emblematico dello stato di un’economia che oltre a difficili rapporti sindacati-imprese soffre di troppi punti di debolezza…
A cura di Luca Spoldi
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Fiat via dall'Italia Per Marchionne Abbiamo una fabbrica di troppo

Come dicevamo già ieri per Fiat il futuro è sempre più a stelle e strisce, visto un andamento del mercato che non pare dare scampo (al punto che in giugno si sono venduti negli Usa pressoché lo stesso numero di Fiat500, 4.004 esemplari contro i 4.200 esemplari immatricolati in Italia e non stiamo certo parlando di un modello “pensato” per il mercato nordamericano). Però l’insistenza con cui Sergio Marchionne torna a parlare di inevitabile chiusura di “almeno” uno stabilimento produttivo italiano se il mercato non cambierà dovrebbe far riflettere e non solo i sindacati.

Come noto Marchionne da tempo si lamenta di rapporti a dir poco infelici coi sindacati italiani, rapporti che sarebbero secondo il manager ben diversi da quelli che esistono non solo in Cina (dove Fiat ha avviato la produzione della Fiat Viaggio che secondo il manager potrebbero persino, in futuro, venire reimportate in Europa) o in Serbia (dove è stata dirottata la produzione della 500L), ma sempre di più appare perplesso di fronte ai limiti del “sistema Italia”.

Limiti che in qualche caso sono evidenti: secondo il rapporto Doing business 2012 della Banca mondiale, i ritardi della giustizia civile costano all’Italia l’1% di Pil l’anno (dunque qualcosa come 15-16 miliardi di euro, dalle tre alle quattro volte la cifra che il premier italiano Mario Monti, che intanto oggi ha nuovamente incontrato la Canzellerin tedesca Angela Merkel, vorrebbe recuperare con la “Spending Review”), mentre i tempi e l’efficacia di risoluzione dei contratti civili pongono l’Italia in coda alla classifica mondiale (al 158esimo posto su 183 paesi).

Se poi si guarda ai tempi di recupero dei crediti, in un paese che vede sempre più crescere i tardi nei pagamenti sia da parte dello stato sia delle imprese private, la situazione non migliora: per recuperare un credito si impiegano mediamente 300 giorni negli Usa e poco di più in Francia (331 giorni in media). In compenso in Italia se ne impiegano quasi 4 volte tanto, 1.210 giorni in media, più del doppio della Spagna (515 giorni) e il triplo che in Cina (406 giorni), in Inghilterra (399 giorni) o in Germania (394 giorni).

C’è poi il capitolo burocrazia e le numerose caste di professionisti che vivono grazie ad essa aggravando i costi per le imprese: se per costituire una Limited (società paragonabile ad una Srl, con diritti e obblighi pressochè identici) in Gran Bretagna servono 100 sterline (ossia meno di 130 euro), in Italia una Srl deve avere per legge 20 mila euro di capitale sociale (senza che questo fornisca maggiori garanzie di serietà o solidità delle imprese), dopo di che occorre solo avere una sede legale in Inghilterra e almeno due persone fisiche maggiorenni (residenti o non) quali soci per poter nominare l’amministratore (director) e il segretario – procuratore (secretary) della società.

A quel punto l’impresa potrà liberamente variare il numero dei soci (anche di nazionalità straniera), cambiare amministratori, nomi, sede o oggetto sociale senza dover mai fare ricorso a un notaio come invece tocca fare ogni volta in Italia, il tutto in tempi rapidissimi (di solito si registra una Limited in una settimana contro i 45-90 giorni che richiede una pratica analoga in Italia) e senza l’obbligo di iscrizione ad una Camera di commercio (come in Italia, con conseguente aggravio di costo attorno ai 200 euro l’anno).

Vogliamo poi spendere una parola sulla pressione fiscale? Quella italiana non ha francamente molti uguali al mondo: nel 2009 (ultimo dato disponibile) era già pari al 43,2% secondo l’Ocse (secondo cui stanno “peggio” solo Danimarca e Svezia tra i paesi aderenti all’organizzazione) ossia al 43,2% per l’Istat (che ci vede al quinto posto in Europa, alla pari con la Francia, dietro a Danimarca, Svezia, Belgio e Austria). Ma l’ufficio studi del Consiglio nazionale dei dottori commercialisti ha già fatto notare che in Italia non tutti pagano le tasse e che quindi, depurando la quota di Pil “sommersa” che il fisco non tassa, la pressione sui contribuenti italiani è in realtà pari ormai al 51,6% e dunque per assurdo se un imprenditore cessa di lavorare lo stato ormai ci perde più di lui.

Tanto è vero che, come ha spiegato oggi l’Istat,  a fine marzo scorso l’indebitamento netto delle Amministrazioni Pubbliche (AP) è stato pari all’8,0% del Prodotto interno lordo (Pil), mentre un anno prima era stato pari al 7,0%. Sempre nel primo trimestre 2012 il saldo primario (indebitamento al netto degli interessi passivi) è risultato negativo e pari a 11.471 milioni di euro, con un’incidenza sul Pil del -3,0% ed il saldo corrente (risparmio) è stato pari a -21.952 milioni di euro (era stato -17.120 milioni di euro nel corrispondente trimestre dell’anno precedente), con un’incidenza sul Pil di -5,8%.

Certo, il sistema Italia soffre anche a causa di variabili esogene, come il “caro spread” che scontano in questo periodo i nostri titoli di stato rispetto a quelli tedeschi, o una recessione europea indotta dalla “ricetta tedesca” fatta a colpi di austerity che ha contratto il Pil italiano facendo calare anche le entrate fiscali (calate dell’1% a livello complessivo su base tendenziale mentre le uscite totali aumentavano dell’1,3%).

E soffre certamente dell’incapacità o mancanza di interesse da parte di molte imprese ad investire in innovazione tecnica, organizzativa e di prodotto (le piccole e medie imprese, che costituiscono il 70% dell’economia italiana, sono storicamente troppo deboli e soffrono di troppi ritardi culturali per riuscirvi in modo significativo, le gradi imprese come Fiat o Sogefi trovano più conveniente puntare su mercati emergenti in forte crescita, come l’India, la Cina, la Turchia o il Brasile, piuttosto che sull’Italia).

Se poi ai punti di debolezza strutturali si sommano errori di valutazione manageriali, interessi privati non sempre allineati a quelli pubblici, una certa miopia imprenditoriale e la tendenza a far leva ancora su un “capitalismo familiare” fatto più di relazioni sociali che di competenze, il quadro (desolante) è completo. Resta per contro evidente che la maggior parte degli italiani, dai giovani agli anziani, ha le qualità, la voglia e il diritto di ambire ad un futuro migliore che la sola rassegnazione ad una crescente marginalizzazione. Ma se non si inizia a correggere qualche difetto di sistema e a tagliare le unghie di qualche congregazione, casta e lobby (politica o economica che sia), non è detto che questo diritto possa essere garantito più a lungo, non credete?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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