E’ sempre meglio diffidare dei mercati e dei doni che essi recano, anziché provare a fare campagna elettorale spacciando per segno di incrollabile fiducia una situazione contingente (lo spread tra i rendimenti dei titoli di stato di differenti paesi, piuttosto che le performance degli indici borsistici) che può dipendere da mille fattori, non ultimo la “benevolenza” di alcuni paesi (Germania) o istituzioni (Bce e Fmi) in grado di garantire pro tempore della solvibilità del creditore anche meno credibile. Succede invece che proprio la Grecia si sia dimenticata di questa lezione e abbia provato, in scia al momento di “grazia” dei mercati degli ultimi mesi, a sottrarsi alle decisamente poco “amorevoli” cure della “troika”, avviando un negoziato con la stessa per uscire dal “bail out” da 110 miliardi di euro, di cui 80 da Ue e Bce e 30 dal Fmi, al termine “naturale” del periodo di assistenza finanziaria concessa dalla troika ad Atene, che scade a fine anno.
Si può fare, ma anche no: se lo scorso aprile la Grecia era riuscita a collocare un bond quinquennale per complessivi 3 miliardi di euro pagando “solo” il 4,95% annuo lordo, un risultato a cui secondo l’editorialista del Financial Times, Wolfgang Munchau, aveva contribuito in modo deciso da un lato la fame di rendimenti degli investitori istituzionali, che ormai da anni di confrontano con curve rischio/rendimento alterate dall’azione massiccia e costante delle banche centrali mondiali (che abbassa sistematicamente il rendimento offerto, specie sulle scadenze a brevissimo e breve termine, ma si riverbera anche sulle scadenze a medio e lungo termine), dall’altro la sostanziale copertura “politica” offerta alla Grecia dalla Germania, che in cambio delle riforme “accettate” (obtorto collo e in modo assolutamente parziale e poco trasparente, ma non è una novità) da Atene proprio col meccanismo del “bail out” ha da quel momento mandato messaggi ai mercati che mai avrebbe consentito alla Grecia di dover abbandonare l’euro.
Sorpresa, si fa per dire: Atene non è Dublino (e neppure Lisbona) e resta dipendente dai capitali internazionali (e da quelli della troika in particolare), tanto che il lungo negoziato tra Atene e i rappresentanti di Ue-Bce-Fmi, dopo essersi sostanzialmente arenato ha visto la concessione di un piccolo ma significativo slittamento dei tempi, due mesi, per uscire dalla procedura (o chiedere un’ulteriore proroga). Tra gennaio e febbraio il premier greco Antonis Samaras dovrebbe prima far approvare una finanziaria nel complesso sufficientemente blanda (il premier greco ha anzi promesso di abolire alcune tasse introdotte al culmine della crisi) da non irritare ulteriormente la popolazione, salvo reintrodurre dalla finestra la repressione fiscale formalmente cacciata dalla porta attraverso una successiva manovra correttiva in marzo. Data in cui, e non è casuale, anche l’Italia (e la Francia) potrebbero dover varare misure d’emergenza per non vedersi bocciati i conti da Bruxelles.
Ma le similitudini tra Grecia e Italia non si fermano qui: Samaras, come Matteo Renzi, ha anche un altro problemino da risolvere. Deve trovare il nome del nuovo presidente della repubblica (il suo candidato sarebbe l’ex Commissario Ue Stavros Dimas), per eleggere il quale dovrà tuttavia, secondo la costituzione greca, trovare un’ampia maggioranza, 180 voti su 300 membri del parlamento di Atene. Samaras dispone al momento di 155 voti e vuole forzare i tempi il più possibile, temendo uno sfilacciamento della sua maggioranza se le votazioni si prolungassero oltre il terzo scrutinio. Una crisi politica ora metterebbe la Grecia a rischio elezioni anticipate, con la sinistra populista di Syriza, guidata da Alexis Tsipras, che spera di riscuotere un buon successo facendo leva, come altri movimenti in Francia e in Italia, sui sentimenti anti-euro e anti-Germania che anni di crisi economica hanno alimentato. Per questo Samaras sperava di poter quanto meno vantare l’uscita dal “bail out” come segno che il peggio era ormai alle spalle, ma questa volta i mercati non ci sono stati.
Oggi la borsa di Atene cede oltre il 12,5%, mentre sui titoli di stato decennali il rendimento sale di oltre un punto percentuale tornando oltre il 7,6%. Un temporale quasi senza preavviso, che in poche ore ha cancellato i recuperi accumulatisi nei mesi passati. L’avvisaglia di quello che potrebbe capitare all’Italia se alla bocciatura appena giunta da Standard & Poor’s si sommassero ulteriori revisioni negative del rating sovrano da parte di Moody’s e Fitch, barometri degli umori dei mercati riguardo la credibilità o meno degli emittenti, ovvero della solidità delle garanzie “terze” prestate in questo caso ai paesi del Sud Europa (ma anche a Parigi) dalla Germania e dalla Bce. Forse anche per questo nelle sale contrattazioni continua a circolare con insistenza la voce che anche l’Italia, se le riforme dovessero tardare ulteriormente e la crescita latitare, potrebbe varare qualche misura “straordinaria” per rassicurare i mercati ed evitare il peggio.
Quale? A seconda delle case si va dall’ipotesi di un prelievo straordinario su depositi e conti correnti, come fece già nella notte fra il 9 e il 10 luglio 1992 il governo guidato da Giuliano Amato (che alcuni danno tra i papabili come successore di Giorgio Napolitano alla presidenza della repubblica), fino ad un “haircut” del debito pubblico che si tradurrebbe nel mancato rimborso di una percentuale (tra il 10% e il 20%) dei titoli in portafoglio quanto meno alle banche italiane (che a fine settembre detenevano 396 miliardi di tali titoli). Alternative intermedie consisterebbero in acquisti di titoli italiani da parte della Bce “condizionati” da ulteriori tagli e riforme più incisive, che logica vorrebbe riguardassero ad esempio gli enti locali, le municipalizzate e il servizio sanitario nazionale, oltre che l’apertura dei mercati alla concorrenza e il mercato del lavoro per quanto attiene ai decreti attuativi della riforma varata col “Jobs Act”, l’introduzione di ulteriori misure per “combattere l’evasione” e incrementare ulteriormente le entrate fiscali, eventuali ulteriori inasprimenti delle accise (magari su benzina e tabacchi, cos da sfruttare la rigidità della domanda), eventuali ulteriori rimodulazioni o abolizioni di esenzioni e bonus vari.
A questo punto probabilmente tanto varrebbe abolire il “bonus Irpef” anche noto come “80 euro in busta paga” che riguarda solo i lavoratori dipendenti, che costa una decina di miliardi l’anno e che non ha in alcun modo modificato la propensione al consumo degli italiani né si è tradotto in un incremento sensibile di reddito disponibile, ma tant’è. Ovviamente stiamo facendo ipotesi che, in quanto tali, potrebbero anche non verificarsi mai. Il consiglio, già espresso ieri, è tuttavia di non tenere tutti i vostri risparmi in un’unica tipologia di asset, così da minimizzare l’eventuale impatto di misure come quelle sopra ipotizzate. L’alternativa, quella di un’uscita dall’euro che andasse a fare concorrenza non tanto al dollaro, come mi ha corretto un amico gestore patrimoniale di lungo corso come Maurizio Piglia (che ringrazio) ma all’euro/marco, resta a mio parere molto aleatoria, perché la crisi italiana è crisi strutturale e demografica, con forti valenze culturali prima che solo monetaria o fiscale. Ma potrebbe e dovrebbe essere valutata attentamente in termini di costi e benefici (e relativa distribuzione) nelle sedi opportune, non solo per mero calcolo elettorale ma per avere quanto meno un “piano B” per il paese se tutto andasse male, come mi auguro invece non accada.