La ripresina italiana può aver trovato un alleato, ma anche no. Mentre il petrolio cala sui 38 dollari al barile come conseguenza della già ricordata decisione dell’Opec di abolire il tetto ufficiale alla produzione petrolifera dei paesi aderenti al cartello viennese, le entrate fiscali continuano a correre allegramente. Che cosa potrebbero comportare questi due trend? Andiamo con ordine.
Il petrolio sta calando di prezzo non perché la domanda stia frenando, come accaduto subito dopo l’esplodere della crisi economico-finanziaria del 2008, ma semplicemente perché la produzione aumenta molto più rapidamente dell’aumento della domanda (che pure lentamente ma costantemente continua). La decisione dell’Opec rischia non solo di mantenere gli attuali livelli produttivi, attorno ai 31,5 milioni di barili al giorno, ma di farli crescere ancora.
L’Arabia Saudita, che già estrae 2 milioni di barili al giorno, sembra pronta a giocarsi anche la carte di iniziare a utilizzare una parte delle riserve finora non sfruttate pur di incrementare ancora l’estrazione (destinandola in particolare ai clienti asiatici, verso i quali sta praticando ulteriori sconti). L’Iran da parte sua ha già detto e ripetuto che prima vuole tornare ai livelli pre-sanzioni, ossia sul milione di barili al giorno.
Solo a quel punto si potrà parlare di eventuali accordi per sostenere i prezzi, ma dovendo far ripartire le esportazioni, in primis verso l’Europa, non è detto che l’intesa slitti ulteriormente e comunque se verrà non sarà prima del 2016 inoltrato. La Libia infine potrebbe proseguire nel recupero produttivo visto da qualche mese in parallelo al diminuire degli scontri tra i due “governi” che si sono sostanzialmente spartiti il paese dopo l’intervento militare del 2011 e dai circa 420 mila barili attuali potrebbe risalire sugli 1,5-1,6 milioni, tornando ai livelli del 2010.
Per il numero uno della Bce, Mario Draghi, questo potrebbe significare che le pressioni deflazionistiche proseguiranno anche l’anno venturo e il previsto “rientro” di uno scalino di circa un punto percentuale (legato al calo delle quotazioni del greggio registrato tra il 2014 e il 2015) potrebbe slittare nuovamente, facendo rimanere l’inflazione 2016 vicino all’attuale 0,1% e non verso l’1% e quella del 2017 attorno all’1% e non all’1,6% come stimato solo pochi giorni fa dalla Bce.
Al di là della probabile ulteriore prosecuzione del quantitative easing ben oltre le attese attuali (e dunque il permanere dei tassi vicino ai livelli attuali, per la gioia di chi ha acceso mutui a tasso variabili), è un bene o un male per l’economia italiana? In termini di maggior reddito disponibile reale è certamente un bene, stimabile attorno ad un punto percentuale in più in termini di Pil per ogni 10-12 dollari di calo delle quotazioni petrolifere.
Anche le altre materie prime stanno segnando peraltro nuovi minimi: il materiale ferroso, ad esempio, è calato oggi per la prima volta dal 2009 sotto la soglia dei 40 dollari per tonnellata e questo, insieme alla sovraccapacità produttiva, rischia di far calare ulteriormente i prezzi dell’acciaio creando non pochi grattacapi a gruppi come l’Ilva di cui i commissari stanno cercando di definire un processo di cessione degli impianti che punta a salvaguardare i livelli occupazionali (ma rischia di creare un contenzioso con la Ue se questo comportasse una perdita accollata ai contribuenti italiani che assomiglierebbe ad aiuti di stato).
I bassi prezzi dei carburanti legati al ribasso del prezzo del petrolio e un minimo di ripresa della domanda interna favorita dal graduale recupero del reddito disponibile stanno intanto facendo ripartire il settore trasporti, come confermano i dati di settembre dell’intera rete autostradale nazionale che ha visto un aumento del 4,5% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso del traffico leggero (auto) e del 4,3% del traffico pesante (camion e Tir). Questo potrebbe a sua volta indurre un recupero degli investimenti delle aziende (non solo del settore) che tornerebbe a vantaggio della ripresa.
Per contro l’andamento delle entrate fiscali continua a presentarsi molto superiore all’incremento del Prodotto interno lordo, il che sta ad indicare che la pressione fiscale non sta diminuendo e questo non può che frenare la ripresa, confermando che sarà difficile poter contare sulla “mano pubblica” ad esempio con investimenti infrastrutturali (anche in settori critici come la sanità dove il debito pregresso continua a bloccare ogni investimento da anni).
Nel periodo gennaio-ottobre 2015 le entrate tributarie erariali, segnala infatti una nota del Tesoro, “accertate in base al criterio della competenza giuridica, ammontano a 331.674 milioni di euro, con un aumento del 3,5% (+11.129 milioni) rispetto allo stesso periodo del 2014”. Ai fini di un confronto omogeneo, precisa la nota, neutralizzando le entrate straordinarie del 2014 e tenendo conto degli elementi che hanno determinato l’andamento delle ritenute di lavoro dipendente, “le entrate tributarie erariali presentano una crescita tendenziale del +2,2% (+7.096 milioni di euro)”.
Un buon dato per il fisco che certamente è rassicurante nell’ottica della tenuta dei conti pubblici e quindi del rispetto degli impegni presi in sede comunitaria, ma poichè secondo l’Istat il Pil italiano è cresciuto a fine settembre solo dello 0,8% rispetto al terzo trimestre 2014, portando ad una variazione acquisita per il 2015 al +0,6%, anche quest’anno il prelievo del fisco nelle tasche di aziende e famiglie italiane rischia di crescere ad un ritmo tra le tre e le quattro volte più veloce di quanto non cresca il Prodotto interno lordo. Non esattamente un contributo alla crescita.