Quasi mai nell’economia esiste il bene o il male assoluto, tutto dipendendo dal ruolo di ciascun attore e dal modo in cui vengono utilizzati gli strumenti a disposizione. Prendiamo il caso dei tassi d’interesse: quando essi sono prossimi o finanche sotto lo zero, come capita in questi anni visto la riduzione dei tassi ufficiali e la quantità enorme di liquidità messa in circolazione dalle banche centrali di mezzo mondo per cercare di far ripartire l’economia dal Giappone agli Stati Uniti, dalla Gran Bretagna all’Eurozona, si sarebbe portati a dire che siamo in uno dei mondi migliori possibili.
E’ certamente l’opinione dei debitori, che siano singole famiglie alle prese col mutuo, aziende in cerca di finanziamenti o stati sovrani. Meno propensi a dipingere questa situazione come ideale sono invece gli investitori e non, si badi, gli “speculatori” che periodicamente riaffiorano sui titoli della grande stampa in cerca dell’untore di turno. Tra gli investitori maggiormente colpiti da un regime di tassi (sotto)zero vi sono ad esempio i fondi pensione, ossia quegli organismi impegnati a far fruttare i capitali accumulati dai lavoratori nel corso della loro vita professionale e ai quali dovranno essere restituiti con un adeguato tasso di rivalutazione per consentire un tenore di vita dignitoso una volta che i lavoratori stessi si saranno ritirati in pensione.
Pochi giorni fa Norges Bank Investment Management, ente che gestisce il fondo sovrano norvegese creato per mettere a frutto i proventi del settore petrolifero del paese, ha annunciato (dopo aver registrato la peggiore perdita trimestrale da anni) che intende vendere titoli di stato, che hanno reso mediamente lo 0,9% annuo, per acquistare proprietà immobiliari, che tra affitti e compravendite rendono mediamente il 3% all’anno. Norges Bank, la banca centrale norvegese, deve del resto prepararsi a far fronte alle richieste del governo di Oslo che per finanziare il deficit di bilancio nato dalle misure a sostegno di una crescita sempre più asfittica, prenderà dunque più rischio passando dai “tranquilli” titoli di stato ad asset immobiliari che qualche problemino hanno già causato a paesi come la Spagna (e in misura minore alla stessa Italia).
Ancora più aggressivi i fondi pensione canadesi: intervistato dall’agenzia Bloomberg Jim Keohane, Ceo del Fondo Pensione della Sanità dell’Ontario, ha ricordato che il suo fondo, come tutti gli altri del paese, deve poter offrire un rendimento minimo ai propri assicurati, rendimento che ad oggi non è più possibile ottenere semplicemente investendo in titoli di stato. Si noti che i fondi pensione canadesi svolgono la funzione di “primo pilastro”, sono insomma l’equivalente dell’Inps ed erogano pensioni “pubbliche”, non forme integrative concordate tra aziende e lavoratori o che il singolo lavoratore può decidere di accendere per integrare appunto la propria pensione “di base”.
Pertanto, ha ricordato Keohane, “dobbiamo guadagnare quel ritorno in qualche modo”, ma come? A quanto pare iniziando a ipotecare le loro proprietà immobiliari e formando dei fondi hedge interni che investono il ricavato in strumenti derivati come swap, opzioni e contratti derivati sui tassi forward, correndo maggiori rischi pur di riuscire a rispettare gli impegni con i propri assicurati.
Qualcuno anche in Italia, dove il tasso di rivalutazione delle pensioni è passato dal +1,1% definitivo del 2014 al +0,3% provvisorio del 2015, propone che i fondi pensione (oltre a Cassa depositi e prestiti, che gestisce il risparmio postale) inizino a investire nell’economia reale, quanto meno iniziando a comprare azioni, obbligazioni, quote di fondi e strumenti “plain vanilla” (che sono sicuramente meno problematici da gestire rispetto a prodotti derivati e a leva), visto che quanto ad investimenti immobiliare bastano e avanzano quelli di banche e assicurazioni. L’idea è affascinante, ma ha un costo che potrebbe non apparire evidente: accettando un livello di rischio crescente per cercare di ottenere ritorni “adeguati” (oltre che per sostenere la crescita), di fatto gli investitori di lungo termine mettono sotto un’alea crescente i ritorni futuri.
Detta in altri termini con i bassi tassi d’interesse, mantenuti a livello zero o sottozero dalle banche centrali per cercare di far ripartire ora la ripresa e far risalire l’inflazione, e i fondi pensione costretti a investire sempre meno a reddito fisso e sempre più in attività a rischio, a pagare il conto potrebbero essere coloro che attualmente sono all’inizio della propria vita professionale, che spesso un costo lo hanno già pagato in termini di minori tutele contrattuali rispetto a chi un lavoro già ce l’ha o è già in pensione. Il gioco può valere la candela solo se la crescita ripartirà e resterà florida per i prossimi decenni, non anni.
Finora però gli sforzi fatti dalle banche centrali hanno prodotto risultati contraddittori: se in Gran Bretagna e negli Stati Uniti la ripresa è avviata da tempo e sta proseguendo riassorbendo disoccupazione ma senza creare tensioni troppo elevate sul fronte dei prezzi, in Giappone sono anni che la banca centrale prova senza grandi risultati a smuovere una crescita asfittica, mentre in Europa nonostante tutto Mario Draghi non è riuscito ancora a ridurre le differenze esistenti tra i singoli stati dell’Eurozona in termini sia di crescita sia di facilità di accesso ai capitali.
Nel frattempo per i fondi pensione di tutto l’Occidente sarà sempre più difficile rispettare gli impegni presi coi propri assicurati, così i tassi potrebbero presto o tardi dover comunque risalire (o la rivalutazione delle pensioni calare ulteriormente), con tutti i rischi di un nuovo cortocircuito per i paesi a più elevato debito che non avranno saputo approfittare del periodo di denaro sottozero per tagliare concretamente il debito. Come non pare di vedere avvenire in Italia, ad esempio. Decisamente l’economia è un mondo che non ama molto le semplificazioni e le rappresentazioni in bianco e nero.