Tutti in attesa della Federal Reserve, che giovedì potrebbe annunciare un primo rialzo dei tassi sul dollaro da un quinquennio, ponendo fine di fatto all’era del “denaro a costo zero” (per le grandi banche, almeno), che ha fatto seguito al collasso di Lehman Brothers, quarta maggiore banca d’affari Usa schiantata dal peso di scommesse sbagliate su derivati che avevano come sottostante mutui subprime. Ma cosa vorrebbe dire un rialzo, di un solo quarto di punto (dallo zero allo 0,25%) dei tassi ufficiali sul dollaro Usa?
Secondo Stanley Fischer, economista considerato da tempo uno dei migliori banchieri centrali al mondo (è stato tra l’altro governatore della banca centrale di Israele dal 2005 al 2013, prima di essere nominato vicepresidente della Federal Reserve nel gennaio 2014, prendendo il posto di Janet Yellen promossa al vertice della Fed), i mercato sopravvalutano spesso i benefici derivanti da una prolungata attesa in tema di rialzo dei tassi.
Attendere oltre, secondo il banchiere, non solo è sbagliato, ma rischierebbe di non produrre alcun significativo beneficio ulteriore ad una ripresa economica che è già molto “anziana” (essendo partita nel secondo semestre del 2009) e a mercati che ormai attendono di mese in mese il rialzo (al momento i due terzi del mercato scommette che la Fed alzerà i tassi questa settimana).
Per di più dato che le politiche monetarie richiedono tempo prima di produrre effetti concreti nell’economia reale e viste le consuete turbolenze in cui operano i mercati, attendere ancora un mese, e poi un altro e un altro ancora, non rende la situazione più chiara agli occhi di un banchiere centrale, semplicemente la rende “poco chiara ma in un modo differente”, come spiegò già nel 2013 Meir Sokoler, all’epoca vice di Stanley Fisher alla banca centrale israeliana.
Tuttavia, la Federal Reserve ha un doppio mandato e a differenza, ad esempio, della Bce non deve solo cercare di garantire la stabilità dei prezzi (cosa che per il momento non pone alcun rischio, essendo il tetto del 2% annuo ben distante tanto in Europa quanto in America e non notandosi tensioni salariali, solitamente nocive per la produttività delle aziende, che anzi continuano a fare discreti utili negli Usa e ottimi in Europa, potendo così continuare ad investire e assumere), ma anche la piena occupazione.
Anche per questo un rialzo dei tassi sia pure minimo e isolato, che possa però mettere a rischio l'occupazione inducendo le aziende a ridurre gli investimenti e tagliare i costi, non è per nulla scontato ed è anzi possibile (lo stesso Fmi sembra augurarselo, paventando una frenata dell'economia mondiale in caso di un rialzo prematuro dei tassi) che alla fine si opti per un rinvio di ancora un mese, a fine ottobre, o addirittura per rimandare tutto a inizio 2016 (per tradizione la Federal Reserve non tocca i tassi nell’ultima riunione dell’anno, a inizio dicembre).
Quali rischi comporterebbe peraltro un rialzo dei tassi americani per le aziende e le famiglie italiane? Un rialzo dei tassi, traducendosi in un dollaro ulteriormente forte, rischia di costare caro in prima battuta alle economie emergenti, che tendono a registrare rapidi e intensi deflussi di capitale ogni volta che i tassi salgono e il dollaro si rafforza significativamente.
Visto che già ora la Cina, ma anche il Brasile, la Russia e altre economie emergenti, appaiono in fase di rallentamento quando non già in crisi, complici anche le deboli quotazioni del petrolio (che reagendo in modo opposto al dollaro potrebbero ulteriormente calare), un rialzo prematuro dei tassi Usa potrebbe mettere definitivamente in crisi tali mercati, con ripercussioni anche per quelle aziende occidentali (ed italiane in particolare) che puntano sull’Asia, l’Est Europa e l’America Latina come mercati per compensare l’ancora debole domanda europea.
In realtà una nota di Credit Suisse stamane ha almeno in parte dissipato tali timori: l’esposizione dell’area dell’euro alla domanda finale dell’Asia, scrivono gli esperti svizzeri, è relativamente contenuta e più che causare una nuova frenata economica l’eventuale crisi asiatica rallenterebbe una ripresa che nel vecchio continente dovrebbe comunque rafforzarsi il prossimo anno, grazie ad un miglioramento delle condizioni della domanda interna, cui fa bene un’energia a basso costo e una politica fiscale che dopo molti anni non è più ferocemente recessiva ma inizia ad essere sia pure blandamente a supporto della crescita.
Certo, la crisi mondiale del 2008-2009 causata dal crollo di Lehman ha insegnato che tra il dire e il fare occorre tener presente una serie di variabili difficilmente calcolabili ex ante, come il grado di diffusione del debito (in particolare quello denominato in dollari) presso le singole banche e aziende sistemiche, oltre al livello complessivo delle sofferenze lorde e nette.
Il rischio, insomma, esiste e consiste in un possibile venir meno prematuramente della valvola di sfogo dell’export, in una maggiore aggressività sul mercato europeo delle aziende tedesche (che in questi anni avevano puntato più di altre sulla Cina e sull’Asia in genere), in un emergere di nuovi casi di crisi aziendale che potrebbero indebolire nuovamente un sistema bancario faticosamente ripresosi dallo shock di sette anni or sono e che a detta di molti addetti ai lavori presenta ancora troppe ombre per non generare qualche timore.
Un timore che in Italia, in particolare, si annida nei bilanci, non sempre cristallini e trasparenti, delle banche popolari, nel frattempo alle prese con un lento processo di trasformazione che sta già facendo emergere qualche sorpresa negativa. Siamo del resto sul finire dell’estate e i temporali abbondano: dobbiamo dunque sperare che Janet Yellen e i suoi colleghi della Federal Reserve abbiano un quadro sufficientemente chiaro della situazione e che siano interessati anche agli effetti che la loro decisione potrà causare fuori dagli Stati Uniti, o come minimo ci attende una fine d’anno più turbolenta del previsto.