Che sta succedendo ai mercati finanziari? Non è solo questione di crisi greca, ma da qualche tempo trend consolidati sembrano essere sul punto di invertirsi o quanto meno di entrare in una fase di forte volatilità e qualcuno si chiede cosa ci sia dietro gli ultimi "misteriosi movimenti" dei mercati mondiali. Dietro, in realtà, non sembra esserci proprio nulla di misterioso, quanto piuttosto l’ineluttabile trascorrere del tempo e la presa d’atto, graduale, che le cose cambiano sia pure con tempi a volte non in linea con le previsioni o le speranze degli investitori e delle banche centrali di tutto il mondo. Vale dunque la pena di capire che sta succedendo e che riflessi potrà avere sui mercati e sull’economia reale in tutto il mondo e in Italia in particolare.
Come spiega anche Alessandro Fugnoli nell’ultimo numero de “Il Rosso e il Nero”, dopo sei anni seguiti alla primavera del 2009, quando i mercati di tutto il mondo toccarono il punto più basso della crisi scaturita a seguito del fallimento di Lehman Brothers nell’ottobre 2008 (fallimento che seguiva quello di un’altra nota banca d’affari, Bear Stearns, di pochi mesi e che per poco non venne seguito da quello della maggiore compagnia assicurativa mondiale, AIG, e di decine di altre grandi banche e istituzioni finanziarie mondiali “troppo grandi per fallire” e per questo aiutate generosamente dai rispettivi governi), in cui i mercati si sono mossi linearmente, da qualche tempo è sempre più evidente che si sta entrando in una nuova fase fatta di movimenti circolari molto più rapidi e all’apparenza contraddittori.
Tra il marzo 2009 e il marzo 2015 i tassi sono continuamente scesi, titoli di stato e obbligazioni sono altrettanto continuamente saliti, così come le azioni, mentre valute e materie prime hanno avuto due fasi distinte: nella prima il dollaro, indebolito dalla politica ultraespansiva della Federal Reserve (che nel suo statuto deve tutelare non solo la stabilità dei prezzi, come la Bce, ma anche la piena occupazione) che serviva a stimolare la ripresa americana, ha perso terreno, poi l’adozione di politiche monetarie altrettanto espansive prima in Giappone (dal 2012) e poi anche in Europa (solo a partire da metà 2014) hanno indebolito yen ed euro portando ad un recupero del dollaro, che già stava recuperando terreno grazie alla riaccelerazione della crescita americana (e del mercato immobiliare da cui la crisi si era originata nel corso del 2007) e dal riassorbimento della disoccupazione.
In parallelo le materie prime (gas, petrolio, metalli industriali) hanno dapprima visto le quotazioni salire rapidamente (col petrolio arrivato ad oltre 100 dollari al barile), in parallelo al calo del dollaro (in cui sono espressi i prezzi di tali materie) e all’accelerazione della domanda cinese, poi hanno iniziato a scendere, non appena la Federal Reserve ha annunciato che avrebbe gradualmente ridotto e poi azzerato i suoi acquisti di bond sul mercato e in previsione di un primo rialzo dei tassi ufficiali sul dollaro, al momento previsto tra giugno e settembre, decisioni in apparenza marginali ma che riportando verso condizioni di “normalità” la politica monetaria statunitense di fatto hanno agito da freno sulla crescita a stelle e strisce (che infatti si è interrotta nell’ultimo trimestre, con una variazione nulla rispetto ai tre mesi precedenti) e da qui sulla crescita mondiale.
Risultato: petrolio in caduta libera, prezzi dei metalli industriali (ma anche di quelli preziosi) indietro tutta, tassi anche di mercato in ulteriore frenata in previsione di una minore domanda di capitali determinata da un rallentamento della crescita quanto meno negli Usa e nei mercati emergenti, a partire dalla Cina. A questo punto però, sorpresa: in pochi giorni il petrolio da poco più di 40 dollari al barile è rimbalzato a 62 dollari, il rame è rimbalzato con decisione dai minimi visti a metà aprile, persino l’euro è risalito e dopo aver sfiorato la parità col dollaro è tornato in area 1,12-1,13. Agli occhi di un osservatore distratto, poco avvezzo allo studio delle interrelazioni tra andamenti dei mercati e aspettative, il mondo sembra impazzito o forse sembra esserci sotto qualcosa.
Ci si chiede infatti come possa l’euro recuperare terreno se la Bce continua a comprare bond sul mercato e la crescita resta una frazione di punto percentuale in gran parte d’Europa, come possa la Cina vedere il mercato azionario tornare a perdere terreno se la crescita, pur in rallentamento, resta più che robusta al punto che qualche casa di studi non esclude ulteriori misure, sia pure “mirate” per ridurre il rischio di bolle speculative, ad esempio sul mercato immobiliare, come può il dollaro indebolirsi se ci si attende un rialzo dei tassi nei prossimi mesi, come possono il petrolio e il rame ripartire se la domanda è sostanzialmente stabile? La verità è che la componente delle aspettative gioca, dopo un periodo di movimenti lineari così lunghi, un ruolo molto più rilevante di quanto non si possa credere, anche perché nel frattempo alcune cose sono cambiate.
Nel campo petrolifero, ad esempio, se un tempo passavano anni prima che un nuovo giacimento venisse sfruttato, una volta che si era presa la decisione di procedere con le prime esplorazioni, ora con la tecnica del fracking bastano poche settimane da quando una società decide di avviare le prime attività a quando il gas o il petrolio di quel giacimento arrivano sul mercato. Le stesse banche centrali dopo anni di misure “non convenzionali” sembrano aver preso maggiore confidenza con l’uso di tali strumenti e sono pronte ad uno “stop and go” fatto di piccole accelerazioni dei tassi verso l’alto o verso il basso in base all’andamento dei dati macroeconomici dell’ultimo trimestre, quando non delle attese per il trimestre in corso. Nel campo del credito alle banche commerciali “tradizionali” e al loro modo di concepire il proprio mestiere si vanno sostituendo, almeno in America, nuovi operatori che spesso arrivano dalla Silicon Valley più che da Wall Street o Washington.
Dovremo insomma abituarci a convivere con mercati non tanto e non solo più volatili e rischiosi (lo saranno ma solo se li si analizzerà nel brevissimo periodo, su base giornaliera o settimanale) ma soprattutto più reattivi. A medio termine la sensazione che hanno molti è che poco cambierà: le relazioni tra tassi d’interesse di mercato e crescita resta immutata (e negativa), quella tra crescita e utili aziendali ugualmente rimane la stessa (e positiva), il “trade off” tra margini di profitto, costi e lavoro nel complesso è destinato a cambiare poco e quel poco più per l’emergere di nuove forme di organizzazione del lavoro stesso che non per una differente relazione tra costi e ricavi.
In sostanza se la crescita sarà debole i tassi torneranno a scendere, l’offerta di materie prime si ridurrà, l’andamento dei profitti rimarrà stagnante; questo però favorirà una reazione che farà riaccelerare le economie facendo risalire tassi, profitti e quotazioni delle materie prime fino al punto in cui non sembreranno nuovamente eccessive, rallentando di nuovo il tutto e facendo ripartire la giostra. Una situazione di equilibrio instabile nel breve che potrebbe trasformarsi in un equilibro sostenibile a medio termine, tanto più in un mondo dove, anche per l’assenza di grandi spinte demografiche o di rivoluzionarie accelerazioni della produttività, sarà difficile rivivere periodi di grande accelerazione come quelli visti tra gli anni Settanta e gli anni Novanta del secolo scorso.
Il rischio per l’Italia è di rimanere ancorata a modelli organizzativi, produzioni, soluzioni “politiche” e culturali che, semplicemente, non sono più in grado di cogliere ciò che sta accadendo nella realtà perché continuano a “leggerla” con gli occhiali che si indossavano cinque, dieci, venti anni fa quando il mondo era diverso e i movimenti molto più lenti e lineari di quelli che già ora vanno emergendo e che sempre di più, verosimilmente, saranno in futuro. Più che domandarci “cosa c’è dietro” a questi “strani” movimenti di mercato dovremmo imparare a studiarli meglio, i mercati e le relazioni che li governano, cercando di dotarci degli strumenti, culturali anzitutto, per governarli in modo da trarne i maggiori benefici e non doverne sempre e solo subire le peggiori conseguenze. Altrimenti a pagare il conto saranno sempre gli ultimi e il gap tra i “pochi felici” e i “molti precari” si allargherà ulteriormente.