Il 23 giugno, data del referendum britannico che chiederà ai cittadini di Sua Maestà se rimanere o lasciare l’Unione Europea, si avvicina con sondaggi che danno sempre più probabile un testa a testa tra i sostenitori delle due parti e qualcuna tra le grandi banche d’affari inizia a prepararsi. Così Jp Morgan e Rbs hanno già deciso di rafforzare gli organici per gestire le oscillazioni sui cambi, mentre Fxcm e Saxo hanno deciso di alzare i margini richiesti a chi vuole operare sulla sterlina, che da parte sua oggi è tornata a indebolirsi andando a chiudere a 1,445 contro dollaro e a 1,2723 contro euro (per intenderci, a inizio anno una sterlina valeva 1,47 dollari ovvero 1,36 euro, pari ad un calo in questi primi cinque mesi dell’anno dell’1,7% contro il biglietto verde e del 6,4% contro euro).
Ma al di là delle oscillazioni crescenti dei cambi, cosa comporterebbe l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea, tenuto conto che il Regno Unito già ha conservato la propria valuta e la propria autonoma politica monetaria (gestita dalla Banca d’Inghilterra e non dalla Banca centrale europea) e che ha già dovuto salvare, nel 2008, il proprio sistema finanziario nazionalizzando le maggiori banche del paese, solo in parte riprivatizzate da allora? Secondo il nostro ministro dell’Economia e finanza, Pier Carlo Padoan, dal punto di visto economico, in base ai risultati forniti da una “notevole mole di simulazioni” chi ci rimetterebbe sarebbero i cittadini della Gran Bretagna, anche se “purtroppo non ci rimettono solo loro”.
In compenso “l’Italia è uno dei paesi che ci rimette di meno” secondo Padoan, dichiarazione da valutare con cautela dato che nel 2015 l’Italia è risultata al settimo posto tra i paesi fornitori della Gran Bretagna, mentre ha rappresentato il decimo mercato di sbocco per le esportazioni britanniche. Il rischio maggiore, anche secondo il governatore di Banca d’Italia, Ignazio Visco, è che se vincessero i favorevoli all’uscita (“Brexit”) ci sarebbero subito dopo “forze che cercheranno seguire di seguire l’esempio della Gran Bretagna” e lasciare la Ue, magari per rinegoziare dal giorno dopo un rientro a condizioni migliori.
Come potrebbe rimanere in piedi un’unione in cui ciascuno pretendesse di ottenere condizioni migliori e nessuno fosse disposto a fare concessioni è un mistero, ma per il momento i favorevoli alla Brexit non se ne curano, trovando semplicemente che la Ue, così com’è, è un coacervo di leggi e regolamenti che vengono visti come vincoli cui la Gran Bretagna non dovrebbe sottostare. Di fatto si pensa che un’uscita della Gran Bretagna dalla Ue porterebbe rapidamente ad una svalutazione della sterlina, ma di che ordine di grandezza (20%? 30%?) è difficile immaginarselo.
Per intanto però chi ha già sperimentato una situazione per certi versi analoga, la Svizzera, che a inizio anno ha abbandonato la difesa del cambio e lasciato che il franco svizzero si apprezzasse fino al 26% contro l’euro prima di flettere leggermente, oscillando comunque un 20% sopra i valori di inizio 2016. Una simile rivalutazione sta frenando la crescita, naturalmente: nel primo trimestre dell’anno il Pil svizzero è aumentato solo dello 0,1% (+0,7% su base annua, contro +0,9% previsto), meno sia del trimestre precedente (+0,4%) sia delle attese degli economisti (+0,3%).
Una sterlina svalutata in misura altrettanto significativa potrebbe fornire una spinta in grado di accelerare la crescita economica? No, secondo la Bank of England: l’aumento dell’inflazione che rischierebbe di generare un deprezzamento del cambio potrebbe costringere la Bank of Englad, che da 86 mesi sta rinviando l’aumento dei tassi ufficiali, fermi sul minimo record dello 0,5%, a muoversi. Un rialzo dei tassi si potrebbe a sua volta ripercuotere su investimenti e consumi e questo farebbe rallentare la crescita, con la possibilità che la Bank of England si trovi tra due fuochi o debba far seguire a un primo deciso rialzo dei tassi una successiva correzione al ribasso. In entrambi i casi una situazione molto poco agevole da gestire e ancor meno da prevedere.
Ma per l’italiano medio cosa cambierebbe? Di fatto con un “euro forte”, sia pure indirettamente, potrebbe tornare conveniente prenotare le proprie vacanze estive a Londra o in altre città britanniche, mentre per chi volesse investire, ad esempio in immobili, il rischio sarebbe elevato visto che i prezzi da tempo stazionano sui massimi storici e che una frenata dell’attività economica rischierebbe di causare un rapido calo delle quotazioni. Nebuloso poi il destino di chi vorrebbe andare in Gran Bretagna a cercare un lavoro, anche perché l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue potrebbe costituire (ma non è certo) un argomento a favore del definitivo stop alla politica di austerità. Potrebbe dunque essere meno vantaggioso trasferirsi in Gran Bretagna per cercare lavoro se, come è probabile, le occasioni diminuiranno, gli stipendi (in euro) saranno meno allettanti e al tempo stesso la crescita in Italia trovasse un nuovo sia pure indefinito sostegno.