La crisi russa sembra avvicinarsi all’epilogo e i mercati finanziari vanno in fibrillazione: dopo la mossa a sorpresa decisa nella notte dalla banca centrale russa, che per tentare di interrompere la sequenza di sei sedute consecutive al ribasso del rublo ha alzato i tassi dal 10,5% al 17% (il massimo rialzo singolo mai registrato dal 1998, meno di una settimana dopo un precedente rialzo dal 9,5% al 10,5%) a Piazza Affari l’indice Ftse Mib ha oscillato da un minimo di 17.729 punti a un massimo, a pochi minuti dalla fine della seduta, di 18.670 punti, con un’escursione superiore al 5% nell’arco della giornata, mentre lo spread tra btp e Bund decennali ha a sua volta oscillato tra un minimo dell’1,365% e un massimo dell’1,529% prima di chiudere appena sotto l’1,383%.
Che è successo e cosa ci si deve aspettare nei prossimi giorni? La Russia, stretta tra le sanzioni occidentali scattate a causa della crisi con l’Ucraina, e la guerra dei prezzi petroliferi scatenata dall’Opec ufficialmente per piegare la resistenza dei produttori americani di shale oil, ma che in realtà ha fatto come prima vittima la Russia e i suoi alleati tradizionali nel Golfo Persico come l’Iran (non a caso paesi che perdono soldi se non riescono a vendere il proprio petrolio a prezzi pari o superiori ai 100 dollari al barile, mentre i produttori americani “storici” estraggono petrolio attorno ai 75 dollari al barile e quelli di shale oil tra i 53 e i 78 dollari come già scritto), perde 2 miliardi di dollari l’anno per dollaro di ribasso delle quotazioni petrolifere e dato che dal petrolio di affrontare una pesante recessione il prossimo anno.
Gli investitori (sia russi sia internazionali) lo sanno e stanno da tempo iniziando a far uscire capitali dalla Russia e dal rublo per parcheggiarli vuoi sui sicuri T-bond americani, vuoi su altri titoli azionari e obbligazionari europei e statunitensi (o finanche cinesi e giapponesi, anche se pure qui non mancano i timori di una nuova frenata della crescita di Pechino e di una ripresa anemica di Tokyo) e questo fa calare ogni giorno di più il valore della divisa ex sovietica nei confronti di dollaro, euro e yen. Nel tentativo di difendere la valuta acquistandola sul mercato (contro vendita di dollari) la banca centrale di Mosca ha già bruciato oltre 81 miliardi di dollari da inizio anno, mentre l’inflazione ormai sale a cifra doppia e per banche e società è sempre più difficile rifinanziare i debiti in scadenza (nei prossimi 12 mesi scadranno obbligazioni per complessivi 100 miliardi di dollari, debiti), in gran parte in mano a investitori occidentali, fatto di cui tanto la Bce quanto la Federal Reserve dovranno tener conto nei prossimi mesi.
Vladimir Putin finora ha provato a fare la voce grossa, minacciando “misure straordinarie” contro coloro che “speculano contro il rublo”, annunciando lo stop al gasdotto South Stream (che in realtà interessa meno di un temo l’Europa e che non pare completamente morto), provando a coinvolgere Cina e Turchia in progetti di esportazione del gas russo per ora ricevendo molti sorrisi e strette di mano ma nessun impegno finanziario concreto da parte di Pechino né di Ankara. Ora potremmo essere allo show down, con i mercati finanziari che hanno sostanzialmente licenziato lo “zar” e Mosca che rischia di precipitare nel baratro di una crisi che potrebbe anche, nell’ipotesi peggiore ma non così irrealistica, tradursi in un nuovo default sovrano a 16 anni di distanza da quello che segnò la fine politica di Boris Yeltsin, costretto nel 1999 a dimettersi da presidente per far spazio proprio a Vladimir Putin, che così rischierebbe un clamoroso bis.
E in Occidente cosa succederà? A parte le inevitabili tensioni geopolitiche e le ripercussioni maggiori per quelle aziende e quei paesi, come la stessa Italia, che negli ultimi anni avevano provato a “sfondare a Est” concedendo vaste aperture di credito al Cremlino, l’effetto complessivo (anche per l’ex “bel paese”) dovrebbe essere positivo. Secondo gli analisti di Citigroup, ad esempio, già con quotazioni del petrolio attorno agli 80 dollari al barile (per il Wti, ovvero agli 84 dollari per il Brent) si potevano stimare risparmi per le imprese europee e statunitensi derivanti dai minori costi di produzione e trasporti pari a circa 1,8 miliardi di dollari al giorno, per un totale di oltre 1.100 miliardi di dollari di minori costi nell’arco dei successivi 12 mesi, equivalenti dunque ad uno “stimolo” alla crescita, in particolare europea (data la maggiore dipendenza energetica) di pari importo. Col petrolio che oscilla tra i 55 dollari al barile (il Wti) e i 60 dollari al barile (il Brent) e la prospettiva che i prezzi restino a questi livelli ancora per diversi mesi, lo stimolo dovrebbe essere ancora maggiore, tanto più se Bce e Fed manterranno più a lungo di quanto finora previsto una politica monetaria ultrarilassata con tassi vicini a zero.
Nell’attuale situazione italiana, in cui il governo Renzi sta cercando di mantenere il deficit entro il 3% del Pil e far faticosamente avanzare qualche riforma strutturale a partire da quella sul lavoro, c’è da augurarsi che le stime si rivelino corrette o addirittura prudenziali, visto che in caso di nuovi buchi in bilancio derivanti dal perdurare dell’assenza di una qualsivoglia crescita del Pil il rischio di un avvitamento della crisi fiscale (e politica) italiana resta elevato, così come elevata sarebbe la probabilità di misure “d’emergenza” quali prelievi forzosi su conti e depositi bancari o nuovi innalzamenti delle accise su carburanti e tabacchi, oltre che nuovi incrementi dell’Iva (già previsti dalle “clausole di garanzia” nel caso in cui i conti pubblici andassero peggio di come previsto ovvero le copertura finanziaria previste nella Legge di Stabilità 2015 si rivelassero fallaci).
Mors tua, vita mea: meglio non fare comunque troppo affidamento solo sul ribasso dei prezzi petroliferi, o sul provvidenziale lancio di un programma di acquisto di titoli di stato da parte della Bce a fine gennaio (cosa che pure l’attuale tensione finanziaria potrebbe favorire, facendo superare le resistenze tedesche in merito) e di conseguenza sui bassi tassi d’interesse che si continuerebbero a pagare sul debito pubblico italiano. I problemi italiani sono, come noto, legati più all’assenza della crescita che non al solo costo del debito. Sarà meglio dunque approfittare, ove possibile, dell’attuale fase di riassemblamento dello scenario macroeconomico mondiale per cercare nuovi mercati per le nostre aziende, favorirne lo sviluppo e gli investimenti in innovazione,stimolarne la redditività e con essa la propensione ad assumere nuovi dipendenti e collaboratori. La crisi russa è un’esogena, la crisi italiana va superata agendo anzitutto sui fattori endogeni.