Crescita, questa sconosciuta, almeno al di fuori dei dati statistici. Mentre negli Usa a sorpresa cala la spesa per consumi in aprile (-0,1% mensile contro attese di consenso pari a +0,2%), peraltro dopo aver segnato in marzo il maggior incremento su base mensile degli ultimi cinque anni (+1%, dato rivisto al rialzo), e questo pare legato al rallentamento della crescita dei redditi (saliti nel mese dello 0,3% dopo il +0,5% del mese precedente), che gli economisti interpretano come una conferma che ci vorrà ancora molto tempo prima che la ripresa possa realmente interessare la gran parte dell’economia americana e dunque come per molto tempo i tassi ufficiali sul dollaro non risaliranno (e quelli di mercato resteranno probabilmente a livelli relativamente modesti ancora per molti trimestri se non anni), in Europa dove la ripresa procede a macchia di leopardo e dove a fine 2012, come ha ribadito Eurostat ancora in questi giorni, erano a rischio povertà a fine 2012 124,2 milioni di persone (quasi un quarto dell’intera popolazione dei 28 stati dell’Unione europea), si aspetta le mosse di Mario Draghi con un fervore quasi messianico.
Come notano gli analisti del Credit Suisse in una nota odierna, il capo della Bce dovrebbe annunciare la prossima settimana una limatura dei tassi che gli esperti svizzeri scommettono possa esser pari ad uno 0,10% (con un tasso Repo che calerebbe dallo 0,25% allo 0,15%, quello sui depositi da zero a -0,10% equello sulle operazioni di rifinanziamento marginale da 0,75% a 0,65%), senza escludere un intervento “più radicale” (un taglio dello 0,25% su tutti e tre i tassi), cui probabilmente si sommerà una nuova Ltro (operazione con cui si fornisce liquidità a lungo termine a tasso fisso), strutturata questa volta in modo tale da far arrivare credito alle piccole e medie imprese europee, in attesa di lanciare nei prossimi mesi, nel caso, un vero e proprio programma di “allentamento quantitativo” (quantitative easing) consistente nell’acquisto sul mercato di titoli di credito cartolarizzati, passo per arrivare al quale sarà prima necessario adottare nuove regole (in giornata dovrebbe essere diffuso un primo documento elaborato congiuntamente da Bce e Banca d’Inghilterra al riguardo) e poi in qualche modo rivitalizzato il mercato delle Abs (asset backed securities, appunto i titoli di credito cartolarizzati), congelato di fatto dall’esplodere della crisi del 2008-2009.
Che Draghi voglia tentare di far arrivare liquidità all’economia reale è cosa nota da tempo, come nota da tempo è l’obiezione che muove la Germania, secondo cui non è compito di una banca centrale rivitalizzare un mercato ed in ogni caso l’operazione è troppo complessa e rischia di dare pochi o nessun risultato concreto e comunque non prima di un anno o più (sul ritardo temporale concorda sostanzialmente lo stesso Draghi, peraltro). Che la strada di pompare liquidità nel sistema sia sempre più la (sola) strategia delle banche centrali è altrettanto chiaro, visto che l’hanno seguita già la Banca d’Inghilterra (che nel complesso ha acquistato titoli sul mercato per 375 miliardi di sterline), la Federal Reserve (che continua a comprare titoli sul mercato ogni mese, pur avendo abbassato da 85 a 45 miliardi di dollari il tetto agli acquisti mensili, e che ormai ha in portafoglio oltre 4.327 miliardi di dollari di titoli, di cui oltre 2.400 comprati sul mercato), la Banca del Giappone (che dopo aver comprato bond per 55 mila miliardi di yen, quasi 700 miliardi di dollari, ha lanciato ad aprile dell’anno passato un nuovo programma da 1.400 miliardi di dollari da completare entro l’aprile del 2015, programma che non è escluso possa venire ulteriormente incrementato).
La strada della liquidità è stata ampiamente percorsa dalla stessa Bce che oltre a lanciare due Ltro dedicate alle 800 maggiori banche europee a cavallo tra dicembre 2011 e febbraio 2012 per oltre mille miliardi di euro (nel frattempo rimborsati anticipatamente per circa 585 miliardi) andate in buona misura a finanziare le banche spagnole (305 miliardi) e italiane (255 miliardi), ma anche tedesche (250 miliardi), ha acquistato sul mercato (con tre differenti interventi) bond e carta finanziaria per complessivi 295 miliardi. Ogni banca centrale ha però un suo obiettivo differente e riesce in misura diversa nei suoi intenti: la Fed voleva tenere bassi i tassi a lunga scadenza (che non dipendono dai tassi ufficiali, in grado di influenzare solo i tassi a breve) e ci è riuscita sostanzialmente, ma ora vuole trovare il modo di rafforzare la ripresa consolidando in particolare il mercato del lavoro. La Banca d’Inghilterra cercava di sostenere l’economia e per ora pure sembra aver messo una pezza, che però ha fatto schizzare all’insù il valore degli immobili soprattutto nelle città più prestigiose e ricche, a partire da Londra. La Banca del Giappone per ora non sembra aver avuto grande successo nel far accelerare la crescita ai livelli promessi dal premier Shinzo Abe. E la Bce?
Draghi aveva di fronte, dopo la crisi del 2008-2009 e mentre stava scatenandosi la crisi del debito sovrano, nel 2010, lo spettro di mercati totalmente disfunzionali, in cui le banche avevano smesso di prestarsi soldi l’un l’altra (oltre che ad aziende e famiglie, cui anzi iniziavano a chiedere di rientrare dalle posizioni troppo esposte per cercare, peraltro con limitato successo, di contenere l’incremento delle sofferenze su crediti e riequilibrare il rapporto impieghi/depositi arrivato a livelli eccessivamente elevati prima dell’esplodere della crisi). E’ riuscito a riavviare i mercati e ad evitare il peggio ma non è ancora, a distanza di quattro anni, riuscito a far ripartire in modo convincente ed esteso la ripresa in Europa, complice una politica di austerità fiscale che ha finito col “mangiarsi” ogni possibile stimolo monetario nel tentativo, impossibile o quasi, di “riformare sotto le bombe” e mettere “in sicurezza” debiti pubblici che spesso apparivano in tutto o in parte fuori controllo. Riuscirà a fare di meglio questa volta?
Difficile dirlo, anche se nel frattempo la “caccia al rendimento” ha consentito effettivamente di ridurre il peso del debito che grava sugli emittenti pubblici, ma non ha minimamente stimolato gli investimenti in paesi come l’Italia che i conti hanno tentato di aggiustarli non tanto riducendo e riqualificando la spesa, quanto effettuando qualche “taglio lineare” e molti incrementi di imposte (riducendo forse il costo sociale, ma di fatto rinviando anche continuamente ogni possibile punto di svolta della crisi). Ma la “caccia al rendimento” è fenomeno assai volubile e, ad esempio, potrebbe andare a premiare paesi anche fuori dell’area dell’euro sia a livello di “porti sicuri” (i T-bond americani rendono attorno al 2,5% sui 10 anni con un dollaro fin troppo debole contro euro), sia tra gli emittenti emergenti. La Cina, in particolare, sta aggiungendosi all’allegra banda dei “pompatori di liquidità” con la Banca del popolo cinese che da un lato sta aumentando la liquidità immessa sul mercato, dall’altro alza i requisiti patrimoniali per le banche commerciali nel tentativo di raffreddare la crescita dei prestiti interbancari e ridurre anche il peso del “sistema bancario ombra”.
Un sistema, quest’ultimo, formato da fondi d’investimento, trust, gestioni patrimoniali e fiduciarie che finanziano imprese manifatturiere e immobiliari a piene mani, tanto da essere arrivate a possedere già a fine 2012 asset per circa 20.500 miliardi di yuan, contro i “soli” 14.600 miliardi di yuan di asset facenti capo al sistema bancario ufficiale (e da allora la situazione può essere solo andata a squilibrarsi ulteriormente). Perché fa paura lo “shadow banking”? Perché si sospetta (eufemismo) che sia infarcito di derivati e titoli potenzialmente “tossici” in grado di far crollare in recessione l’economia cinese se qualcosa dovesse andar male come capitato ormai 6 anni fa negli Usa. Ipotesi non peregrina visto che anche in Cina le sofferenze bancarie stanno accelerando di pari passo col rallentamento dei ritmi di crescita dell’economia.
Così Draghi deve riuscire in un quadruplice gioco di equilibrio: dare un segnale “forte” al mercato, far arrivare credito a quella vasta platea di piccole e medie imprese che da oltre quattro anni ne è di fatto priva, evitare che gli investitori decidano di smobilitare le loro posizioni e investire nelle “offerte speciali” di altri paesi, il tutto evitando di scontentare troppo gli uni o gli altri membri dell'Unione europea, i cui interessi sembrebbero quasi del tutto contrastanti, specialmente dopo gli ultimi esiti elettorali. Un rebus complicato anche per un giocatore di poker abile come l’ex governatore di Banca d’Italia.