Il vecchio Porter colpisce ancora: una ricerca condotta dalla Harvard Business School a cura di Michael Porter (classe 1947, professore di economia a capo dell’Istituto per la Strategia e Competitività), ha fatto emergere come mentre le imprese di grandi e medie dimensioni sono riuscite a recuperare fortemente dalla “grande recessione” (del 2008-2009) e le persone altamente qualificate stiano prosperando, operai e cittadini della “classe media” sono tuttora in difficoltà, come lo sono le piccole imprese. Secondo Porter, che a onor del vero in questi ultimi anni è scivolato lontano dai riflettori anche solo in ambito accademico, “una tale divergenza è insostenibile”: per questo si è voluto “esplorare le sue cause profonde ed esaminare quali azioni possono mitigare” tale crisi (che ad evidenza non riguarda solo gli Stati Uniti). “Come possiamo creare negli Stati Uniti un’economia in cui le imprese siano in grado sia di prosperare nella competizione globale e di alzare gli standard di vita dell’americano medio?” si domanda Porter.
Bella domanda, che varrebbe la pena si facessero anche “tecnici” e politici italiani ed europei, visto che l’attuale dibattito appare tutto incentrato sulla necessità di mantenere una politica di rigore o di concedere qualche grado di flessibilità per far ripartire una crescita di cui si è persa traccia, ma nessuno si sogna di mettere in dubbio che sia necessario, in particolare per paesi come l’Italia, recuperare competitività, rischiando di ampliare anziché ridurre la frattura tra gli “happy few” che vedranno nuovamente risalire il proprio reddito (e il proprio patrimonio) e i molti che lo vedranno messo sempre più a rischio, se non si troverà il modo per consentire agli italiani di pretendere (e ottenere) lavori migliori e meglio retribuiti. Già, ma come si fa? Gli intervistati (ex alumni dell’università di Harvard mpiegati presso le piccole, medie e grandi aziende americane) si sono rivelati nel complesso pessimisti, ma meno negativi riguardo al futuro della competitività degli Stati Uniti di quanto non lo fossero nelle indagini precedenti, in parte riflettendo il miglioramento ciclico del quadro economico complessivo negli States.
Gli intervistati, tuttavia, segnalano guadagni relativamente modesti in aree che pongono alcune delle sfide più difficili, “come il sistema fiscale, il sistema di istruzione, il sistema politico e i regolamenti” sottolineano i ricercatori, aggiungendo come nel complesso siano state segnalate “debolezze in quegli aspetti dello scenario imprenditoriale americano che guidano le prospettive della classe media e di quella operaia” (negli Usa come in Italia, aggiungo io). I dubbi si concentrano sul sistema di istruzione, sulla qualità delle competenze sul posto di lavoro e sull’efficacia del sistema politico, mentre punti di forza sono individuati “in aspetti che influenzano il successo aziendale, come la qualità della gestione, la vitalità dei mercati dei capitali e le capacità innovative delle aziende”.
Insomma: anche negli Usa si rischia che la ripresa in atto produca sì nuova ricchezza, ma che da essa ne siano in larga misura esclusi i lavoratori. Da notare come gli ex alumni impiegati presso le piccole imprese a stelle e strisce abbiano risposto denotando “una visione più negativa praticamente su ogni aspetto dell’ambiente imprenditoriale degli Stati Uniti”. Questa scoperta, conclude la ricerca, “fa eco alla crescente evidenza che giunge da altre fonti in merito al fatto che le piccole imprese siano svantaggiate in America”. Un dettaglio non di poco conto nel caso si volessero applicare le soluzioni proposte da Porter e colleghi all’Italia, tenuto conto che il Pil italiano dipende per il 70% da piccole e medie imprese.
Per i ricercatori americani è necessario correre ai ripari, in particolare focalizzandosi su tre aree di interesse dove “approcci più intelligenti potrebbero migliorare le prospettive della classe media” (non solo negli Usa, ribadisco): il sistema di istruzione, le competenze sul posto di lavoro e le infrastrutture di trasporto. Quanto al primo punto, i ricercatori di Harvard hanno scoperto che “i dirigenti d’azienda sono già impegnati in numerose e generose partnership per sostenere gli studenti e le scuole. Tuttavia, le imprese sono per lo più coinvolti in sforzi frammentati e sottodimensionati, che alleviano le debolezze nel sistema di istruzione senza rafforzare il sistema a lungo termine”.
Analoghe conclusioni sono state notate per quanto riguarda le competenze professionali, con aziende già coinvolte in varie iniziative di sviluppo delle competenze ma anche il persistere della tendenza nelle imprese “di assumere in un modo che scoraggia gli investimenti in competenze, una scarsa informazione che scorre lungo la “catena logistica” del talento; una collaborazione insufficiente tra aziende, istituzioni educative e governo”. Infine nei trasporti si sono riscontrati “un insieme promettente di singoli progetti, ma nessuna strategia nazionale per aumentare sia la mobilità nazionale sia le opportunità che accompagnano la mobilità”.
Conclusione: gli esperti di Harvard vedono “la necessità per gli imprenditori di agre, di passare da un mosaico opportunistico di progetti verso sforzi strategici e collaborativi che rendano l’americano medio abbastanza produttivo per pretendere salari più alti, anche in concorrenza sui mercati del lavoro mondiali. Senza tali azioni, l’economia negli Usa continuerà a fare solo la metà il suo lavoro, con molti cittadini in difficoltà”. Una considerazione che si potrebbe fare pari pari in Italia, dove seguire senza alcuna capacità di ragionamento critico i dicktat dell’eurocrazia non sembra poter portare a prospettive migliori.