L’accordo trovato all’alba di lunedì 13 luglio sulla Grecia, che evita, forse, la Grexit e certamente la “Grexit a tempo” che all’ultimo era balenata come idea, in verità alquanto bislacca per i motivi spiegati da Mario Seminerio, per uscire dal cul de sac in cui erano finiti dopo cinque mesi di sterili trattative i colloqui che avrebbero dovuto, originariamente, riguardare le misure di bilancio pubblico e le riforme con cui Atene avrebbe potuto ottenere l’ultima tranche da 7,2 miliardi di euro del secondo “bail-out” hanno scatenato in Italia e in tutta Europa un pandemonio.
Mentre i mercati danno un’immediata opinione positiva, vedendo il bicchiere mezzo pieno perché l’euro resta integro, gli economisti sono generalmente più cauti sottolineando come si tratti, ben che vada, di una mezza soluzione provvisoria e gran parte del mondo politico, dalla sinistra (area a cui appartiene il leader di Syriza e premier greco Alexis Tsipras, uscito battuto su tutta la linea e finanche umiliato in modo persino inutile dalla leadership tedesca) ai movimenti populisti “no euro” in genere (cui va neppure troppo velatamente la dura “lezione” tedesca: chi prova a sfasciare l’euro si prepari a dover pagare di tasca sua il conto), si batte il petto, dolente.
Opinione contro corrente, quella dell’economista Carlo Alberto Carnevale Maffè, che in un tweet spiega: “l’accordo sulla Grecia è uno straordinario momento di sintesi politica”, per quanto, aggiunge, si presenti “fragile e incompiuto come tutta la storia d’Europa” e bacchetta chi il giorno prima “esaltava la pura virtù morale del plebiscito” per poi attaccare “l’etica spuria del compromesso” quando “l’Europa, invece, è sintesi d’interessi”. Ma cosa prevede il compromesso raggiunto pochi istanti prima che riaprissero i mercati finanziari, ieri mattina? Aiuti per un import tra gli 82 e gli 86 miliardi di euro su tre anni in cambio di dodici riforme, le prime quattro da far approvare al parlamento greco entro domani, ossia in poco più di 48 ore.
In tutto dodici punti o “condizioni” su cui il parlamento di Atene deve decidere rapidamente se impegnarsi dopo 5 mesi di trattative inutili, di bluff, di prove muscolari come il referendum vinto dal “no” alla precedente proposta della “troika” Ue-Bce-Fmi che indicano come la fiducia della Germania ma non solo nei confronti della Grecia o quanto meno del suo attuale governo sia ormai pressoché pari a zero. Di chi sia la colpa è difficile giudicare: in un mondo in bianco e nero, rassicurante e ipersemplificato come spesso viene rappresentato sui social media e nelle chiacchiere da bar, la Germania è l’avido cattivo che succhia il sangue all’innocente e buona Grecia.
Ma la realtà è diversa e capricciosamente complicata. Prendiamo il primo punto: “razionalizzazione dell’Iva”, generalmente intesa come eliminazione delle esenzioni accordate alle isole, per incentivare il turismo. Mentre è certo che un incremento d’imposte possa avere effetti recessivi, a parità di ogni altra condizione (redditi e prezzi) e nel breve periodo in un settore, quello turistico, che rappresenta ormai quasi un terzo dell’intero Pil greco ed è tra le poche voci attive della bilancia commerciale ellenica, è difficile giudicare quanto sia corretto o meno che quando isole come le Cicladi o nel Dodecaneso applichino un’aliquota Iva del 6,5%, Tassos del 5%, Samotracia del 9% e Skyros del 16%. Il tutto quando in Italia l’Iva per il settore turistico è al 22%, in Francia è pari all’8% e in Spagna al 10%”.
In ogni caso andrebbe ricordato che scaricare o meno (interamente o in parte) l’incremento del costo dei fattori produttivi (capitale o lavoro) o delle imposte sul prezzo al consumo di beni e servizi è una decisione che spetta alle aziende, non è un automatismo (come sanno, purtroppo, benissimo gli automobilisti italiani che vedono puntualmente applicati al rialzo eventuali rincari del petrolio e delle accise sulla benzina ma non altrettanto puntualmente gli eventuali ribassi e tagli di accise). Viene forse il sospetto che si dovrebbe incentivare maggiormente la trasparenza e fornire ai consumatori la possibilità di premiare i servizi e prodotti migliori in base al rapporto prezzo/qualità, più che lamentarsi dell’Europa (o della Germania) cattiva?
Tra gli altri punti principali l’estensione della base imponibile significa una seria lotta all’evasione fiscale, che era in teoria anche nella piattaforma politica di Syriza; pretendere che venga garantita la sostenibilità delle pensioni non è “cattiveria” ma “realismo”, altrimenti i soldi che anche gli altri stati europei hanno versato (l’Italia finora è ferma a 42 miliardi) e verseranno ad Atene direttamente o tramite il fondo Esm servirebbero per garantire surrettiziamente un sistema previdenziale che, semplicemente, non è più sostenibile, dove la somma dei contributi versati da lavoratori e datori di lavoro agli istituti previdenziali, insieme al reddito derivante dagli investimenti effettuati dagli istituti nel 2014 ha rappresentato solo il 57% delle entrate (il 43% essendo rappresentato da forme di sussidi pubblici, pari a circa 13 miliardi l’anno di sussidi, senza i quali gli istituti previdenziali greci finirebbero col dover chiudere.
Se vi interessasse, dati puntuali sulla insostenibilità della previdenza greca sono stati illustrati dall’analista finanziario e blogger Emanuel Schizar (e poi tradotti e pubblicati dal Sole24Ore). L’analisi punto per punto delle garanzie richieste potrebbe proseguire ma non muterebbe l’opinione di chi vede nell’accordo raggiunto un “patto leonino”, impressione onestamente rafforzata dalla decisione di imporre ad Atene anche di costituire un fondo in cui vengano apportati attivi per 50 miliardi di euro a garanzia degli aiuti che verranno per poter avviare nuovi investimenti, ridurre il debito pubblico e rimborsare gli aiuti per ricapitalizzare le banche (25 miliardi di euro girati dal fondo Esm).
Se tutto andrà per il verso giusto si dovrebbe iniziare con 7 miliardi da girare entro il 20 luglio, in tempo per rimborsare i 3,5 miliardi di prestiti Bce in scadenza e probabilmente gli 1,7 miliardi di prestiti scaduti verso l’Fmi, 1,2 miliardi il 30 giugno altro mezzo miliardo abbondante giusto ieri, per poi versare una seconda tranche da 5 miliardi entro metà agosto. Anche la tempistica conferma che la fiducia tra le parti è al minimo storico e andrà lentamente ricostruita. Una domanda però sorge spontanea: messo un cerotto ed evitato il peggio grazie al miglior accordo possibile di questi tempi (e però fragile e incompiuto, per usare le parole di Carnevale Maffè), quali prospettive può avere a lungo termine una Unione che è rimasta per troppi anni “a metà del guado” e che ancora per un lungo periodo di tempo, se mai avverrà, non si trasformerà in un’unione politica e non solo in un sistema di pagamenti comune e in una moneta unica continuamente esposta a critiche e tensioni?
Una unione la si dovrebbe giudicare dalla sua capacità di unire, di appianare le divergenze tra i vari stati membri. Questo significherebbe da un lato vedere il più possibile omogeneo il benessere economico, dall’altro procedere ad una cessione di sovranità che renda questa omogeneizzazione possibile. Ma è proprio contro l’eventuale ulteriore cessione di sovranità che sembrano riuscire a unirsi tutti gli “spiriti” che agitano lo scenario europeo, pro o contro euro, pro o contro Grecia, pro o contro Germania, segno che il virus autodistruttivo all'interno dell'eurozona e dell'Unione europea è ancora presente, come nota ancora Mario Seminerio.
Alla fine il commento più equilibrato alla vicenda mi pare quello di Emma Bonino che sul sito dell’Ispi spiega come “dopo il “giochino”, secondo me piuttosto populista del referendum, che ha anche peggiorato le condizioni economiche della Grecia, l’Eurosummit ha preso una decisione molto dura. Impone infatti condizioni più gravi e pesanti ad Atene, oltre che una tempistica molto stringente. Il tutto peraltro sotto stretta sorveglianza delle Istituzioni Ue”. Al di là dell’accordo in sè e del destino del governo di Atene, “rimane il problema di fondo: se non si trova il coraggio di riformare la governance economica europea – cosa che secondo me dovrebbe portare alla creazione degli Stati Uniti d’Europa – si rischia anche nei prossimi mesi di passare di crisi in crisi, di cerotto in cerotto, anche su problemi al momento non insormontabili, come quello dell’immigrazione.
Pertanto "una riforma in senso federale che vinca le resistenze nazionali – ancora forti in paesi come la Francia – è necessaria per rilanciare la crescita in Europa e il suo ruolo a livello internazionale”. Peccato che l’attuale classe politica europea, espressione della maggioranza dei singoli elettorati nazionali, non sembri avere i mezzi per compiere l’impresa. Su questo andrà infine giudicato il “miglior accordo possibile, eppure fragile e incompiuto”, non sulla divisione tra buoni e cattivi.