Il mondo rischia di annegare nel debito: questo il grido d’allarme di una tra le maggiori banche d’investimento al mondo, Goldman Sachs, il cui bilancio ha chiuso lo scorso anno con un utile netto di 8,48 miliardi di dollari a fronte di ricavi netti per 34,53 miliardi. Intendiamoci: il debito di per sé non è un male (né un bene) in assoluto, il vero problema a cui occorre guardare è semmai la sua sostenibilità nel medio e lungo periodo. Ma è proprio questo che sembra allarmare gli esperti americani, visto che le maggiori economie mondiali stanno vedendo la propria popolazione invecchiare e questo è un fattore che frenerà sempre più la crescita negli anni a venire, rendendo il debito sempre meno sostenibile.
Cerchiamo di capire i termini del problema: nel 2000 la percentuale di over 65eni in Germania era pari al 16,31% della popolazione, in Francia al 16,06%, negli Usa al 12,38% e in Giappone al 17,36%; nel 2020 si prevede che crescerà al 22,99% (Germania), al 20,26% (Francia), al 16,21% (Usa) e al 29,11% (Giappone), mentre nel 2050 sarà arrivata al 30,86% (Germania), al 24,93% (Francia), al 21,22% (Usa) e al 38,81% (Giappone). L’Italia non è inserita tra i dati di Goldman Sachs, ma nel 2011 l’Istat elaborò un rapporto, “Il futuro demografico del paese” contenente le previsioni sull’evoluzione demografica fino al 2065: ebbene, a fronte dei 60,6 milioni di residenti censiti nel 2011, si prevedevano 62,5 milioni nel 2020 e 63,5 milioni nel 2050, con un saldo naturale negativo più che compensato da “forti, ma in calo, migrazioni con l’estero” (dal 2011 al 2065 si prevede l’arrivo in Italia tra i 16,7 e i 19,3 milioni di immigrati).
Non si tratterebbe tanto del fatto che si facciano meno figli (“le nascite non scenderebbero mai sotto la soglia delle 500 mila unità” annue, spiegava l’Istat), quanto di un aumento dei decessi “nonostante la popolazione sia sottoposta a rischi di mortalità via via più contenuti”, tanto che si prevedeva che “i decessi supererebbero la soglia dei 600 mila dal 2013, quella dei 700 mila dal 2037, quella degli 800 mila, infine, nel 2051”. Nella prospettiva “di una longevità tendenzialmente crescente e di una riproduttività sotto la soglia di sostituzione delle generazioni”, l’età media è prevista in crescita dai 43,5 anni del 2011 ai 49,7 anni del 2065, con gli over 65enni destinati a passare dai 12,3 milioni di unità (20,29% del totale della popolazione) del 2011 ai 16,6 milioni nel 2030 (26,14%), per poi toccare i 20 milioni (32,62%) nel 2065.
E’ facile notare come, a parte il Giappone, l’Italia abbia già ora e sia destinata a mantenere anche in futuro una percentuale di anziani più elevata rispetto alle sue principali economie concorrenti. Il tema affrontato da Goldman Sachs ci riguarda dunque da vicino. Ma perché una popolazione in cui cresce la percentuale di anziani dovrebbe essere un problema? Goldman Sachs spiega: “Con la speranza di vita in rapido aumento, non si avrà più quella popolazione attiva di giovani a cui chiedere di sostenere un modello economico di crescita guidata dall’indebitamento nello stesso modo in cui siamo riusciti a fare in passato” e chi spera che possa bastare l’innovazione tecnologica a sopperire rischia di subire una cocente delusione, non solo in Italia, che peraltro in termini di innovazione tecnologica di prodotto e di processo investe da sempre molto meno dei propri concorrenti.
Il Giappone, ad esempio, ha visto in questi anni il debito pubblico salire oltre il 230% del Pil (in Italia è attorno al 131%), ha un deficit/Pil attorno all’8% (per l’Italia il deficit/Pil è salito attorno al 3,5% nel quarto trimestre del 2014) e secondo l’Ocse, ricorda Goldman Sachs, deve a tutti i costi procedere a riforme strutturali, altrimenti vedrà crescere il debito/Pil fino a circa il 247% del Pil entro il 2021, poi se non farà riforme lo vedrà decollare sino a superare il 400% prima del 2040, altrimenti con riforme e una bassa crescita/bassa inflazione lo vedrà stazionare attorno o poco sotto i livelli attuali dal 2030 in avanti. Secondo alcuni banchieri il punto di non ritorno è spesso rappresentato dalla decisione, politica, di provare a generare la crescita attraverso la sistematica gestione di disavanzi della partite correnti.
Quando i governi smettono di puntare al surplus delle partite correnti e hanno bisogno dei soldi degli investitori privati per sopravvivere, lo spread da pagare rispetto a tassi “free risk” non può più essere compresso a soli 30-40 centesimi di punto percentuale, anche se per qualche tempo l’azione delle banche centrali può agire da calmiere, spostando così l'asticella sempre più in alto nella rincorsa della crescita del Pil in rapporto al costo del debito pubblico. Il quadro presentato da Goldman Sachs è certamente allarmante, pensate a cosa succederebbe se nei prossimi anni non solo l’economia italiana ma tutte le maggiori economie occidentali non riuscissero più a salire almeno quanto il costo del loro debito, per il momento “artificialmente” mantenuto basso dalle banche centrali.
In sostanza ci troveremmo a dover decidere se e cosa tagliare per far fronte a oneri sul debito sempre maggiori o a dover annunciare una serie di default di proporzioni colossali, tali per cui tutta la crisi greca finirebbe con l’assomigliare ad un’operetta più che a una tragedia. Se quest’ultima fosse la scelta il rischio di fallimenti a catena del sistema bancario mondiale potrebbe essere elevato, anche se Goldman Sachs evita di dirlo, se si scegliesse la prima opzione, quella di “riforme strutturali” che facciano pagare sempre più per avere sempre meno servizi, si rischierebbe un progressivo impoverimento della popolazione.
Servirebbe un serio accordo tra debitori e creditori, in cui ciascuna delle due parti rinuncia a qualche suo “diritto acquisito” per venire incontro all'altroa, altrimenti tirare per le lunghe la vicenda servirà solo a far pagare ancora una volta ai giovani (di oggi, vecchi di domani) il peso di mancate o errate scelte. Se qualcuno ha un’idea brillante su come uscire da questo terribile “cul de sac” in cui rischiano tra l’altro di cadere tra qualche decennio anche le attuali economie emergenti come Cina, India o Brasile, farebbe meglio a farsi avanti e provare a farsi ascoltare prima che sia davvero troppo tardi.