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Opinioni

Gli Usa evitano il baratro fiscale, l’Italia…

Gli Usa evitano il baratro fiscale e le borse festeggiano lo scampato pericolo. Ma all’Europa e all’Italia servono riforme strutturali e culturali per non dover sempre andare al traino di altre aree economiche…
A cura di Luca Spoldi
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BarackObama

E’ giunto solo ad anno concluso, nelle prime ore del 2013, ma alla fine il compromesso tra Democratici e Repubblicani sul bilancio federale è stato siglato e approvato da entrambi i rami del parlamento americano. Il presidente Barack Obama, forte della fresca rielezione (e del lavoro del vicepresidente Joe Biden) può cantare vittoria, mentre ai Repubblicani per non perdere la faccia di fronte ai propri elettori non resta che minacciare nuove battaglie nelle prossime settimane per ottenere tagli di spesa, minacciando altrimenti di bloccare l’innalzamento del “tetto” all’indebitamento pubblico (che è ormai arrivato a 16.400 miliardi di dollari, circa 12.360 miliardi di euro) senza il quale il governo federale rischierebbe una nuova paralisi prima della primavera.

La notizia ha subito fatto bene ai listini azionari di tutto il mondo: Tokyo ha guadagnato lo 0,7%, Hong Kong è balzata all’insù del 2,89%, Shanghai ha chiuso a +1,73%; in Europa stamane l’indice Eurostoxx50 è in rialzo del 2,31%, con tutti i maggiori mercati positivi (Parigi segna +2,02%, Francoforte +2%, Londra +1,88%), con guadagni ancora superiori per piazze “periferiche” come Madrid (+2,53%) e Milano (+3,16%), perché il venir meno di uno dei più importanti rischi monitorati dagli osservatori (se non si fosse raggiunto l’accordo sarebbero scattati tagli di spesa e incrementi d’imposta automatici che avrebbero colpito il 99% dei contribuenti americani per un controvalore di 600 miliardi di dollari, riportando in recessione l’economia) consente agli investitori di guardare con maggior fiducia anche al processo di graduale risoluzione della crisi del vecchio continente, processo di cui beneficerebbero in particolare i paesi del Sud Europa così duramente penalizzati dai mercati in questi ultimi due anni e mezzo.

La cosa dovrebbe far riflettere e far comprendere a tutti, anche coloro che sono inclini ad ascoltare le sirene populistiche di chi propone “soluzioni” che passano da una “uscita dall’euro”, che la realtà è una sola: i mercati finanziari (e in gran parte anche i mercati delle merci e dei servizi) sono ormai così strettamente interrelati che non ha senso pensare a soluzioni “individuali” per singoli paesi: ciò che nel bene o nel male accade alle diverse aree economiche del pianeta si ripercuote (in modo proporzionato all’importanza dell’area medesima) su tutta l’economia mondiale. Le soluzioni debbono dunque essere sistemiche, tanto più se si vuole risolvere una crisi della portata di quella che scuote da mesi l’Europa del Sud. Quali siano le soluzioni idonee, in particolare per l’Italia, l’ho detto più volte nel corso del 2012: quelle che andranno a incidere sulla cronica e grave carenza nella governance dello stato e nella gestione del settore privato.

Sul versante pubblico l’elenco delle cose da fare è imbarazzante tanto è lungo: migliorare la giustizia civile, ridurre gli adempimenti burocratici per le imprese in tutte le loro fasi di vita, abbassare il peso della fiscalità diretta e indiretta (che alcuni colleghi come Marco Fortis sperano possa un domani essere in parte sostituita da una fiscalità comune europea, nell’ottica di un’unione destinata a farsi anche fiscale oltre che bancaria e monetaria in attesa di arrivare a una piena unione politica) così da disincentivare l’evasione (da combattere senza esitazione). Sul versante privato servono tempi di incasso certi e rapidi, serve che non ci si possa avvalere di “partite Iva” per nascondere rapporti subordinati solo per ridurre (impropriamente e a spese solo dei lavoratori) il cuneo fiscale che ora tutti (persino il dimissionario premier Mario Monti, ormai ufficialmente sceso in politica) dicono di voler ridurre “in futuro” (quanto e quando è purtroppo ancora materia di narrazione più che di previsioni analitiche), serve una maggiore capacità di guardare al futuro e di sviluppare competenze che possano darci un vantaggio competitivo che vada oltre il solo prezzo o il solo fascino del “made in  Italy” come finora venduto al resto del mondo (sole, mare, monumenti, pizza e panettone saranno sempre asset strategici, in grado di attrarre investitori, ma nessuno ha detto debbano essere gli unici da sfruttare).

Serve soprattutto che si inizino a impostare progetti d’investimento realmente produttivi e strategici a livello europeo (il che presuppone a monte una maggiore condivisione dei progetti medesimi e la capacità anche a livello politico territoriale di coagulare sufficiente consenso attorno ad essi, onde evitare di rivedere periodicamente scene come quelle degli scontri per l’apertura di una discarica, di un inceneritore, di una nuova centrale elettrica o di un cantiere dell’alta velocità ferroviaria, secondo la tristemente nota “logica” del nimby, not in my back yard, non nel giardino dietro casa mia), ergo serve il via libera agli Eurobond anche da parte della Germania, che non è l’unica colpevole di questa crisi nonostante una certa vulgata corrente, ma di sicuro ha difettato e non poco di visione strategica, visto che i debiti accumulati dai paesi del Sud Europa, Italia compresa, sono serviti anche a finanziare crescenti disavanzi commerciali con Berlino (che dunque deve buona parte della sua crescita alle esportazioni effettuate proprio verso il Sud Europa nell’ultimo decennio).

Piccolo dubbio finale: riusciranno l’Italia e l’Europa a ripartire o dovranno sempre e solo andare al traino dell’Asia o degli Stati Uniti (che comunque vedranno una crescita in frenata nei prossimi anni visto che debbono a loro volta “mettere in sicurezza” un indebitamento multiplo rispetto a quello italiano)? O, detto in altri termini, la crescita riuscirà a riaffacciarsi anche nel vecchio continente (e in Italia) o per i nostri figli è meglio andare a studiare (per poi trasferirsi definitivamente) in qualche paese emergente dell’Est o del Sud del mondo? La domanda non ha una risposta unica né certa, perché dipende dalle risposte che daranno le varie classi politiche e imprenditoriali nazionali e sovranazionali.

Parlando con l’economista Mario Deaglio qualche giorno fa la sensazione che ho avuto è che una speranza esiste ma è legata, appunto, a un deciso efficientamento della nostra macchina produttiva, che le mancate riforme non fatte dai governi degli ultimi 20 anni hanno reso urgente e indispensabile. Altri economisti come Fortis, che pure ho sentito in questi giorni, sono più prudenti e pur non escludendo che la crescita possa tornare a farsi vedere mettono le mani avanti e spiegano: “per gran parte dell’Occidente nei prossimi decenni la crescita sarà un lusso”, chi continuerà a correre ancora per un po’ saranno i paesi emergenti. E poi? Poi sarà la battaglia dei nostri figli e nipoti, più che la nostra; anche per questo occorrerebbe fin d’ora fare loro un po’ più spazio e prepararli per tempo al compito, tutt’altro che semplice, che li aspetta. E buon anno, naturalmente.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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