Che il gruppo Generali, terza maggiore assicurazione europea con 70,3 miliardi di euro di premi lordi raccolti nel 2015, facesse gola ad Axa (leader di mercato nel vecchio continente con 91,9 miliardi di euro di premi lordi) è una voce che circola da tempo, collegata alla presunta manovra di conquista che Parigi metterebbe a punto facendo leva su manager come Jean-Pierre Mustier (ex top manager di Societe Generale sbarcato alla guida di Unicredit, primo azionista di Mediobanca che di Generali è il socio principale col 13%) e Philippe Donnet (ex top manager di Axa, succeduto lo scorso anno a Mario Greco quale numero uno proprio di Generali).
Finora tuttavia l’ipotesi è rimasta sullo sfondo, nonostante il ventilato interesse di Mediobanca (nella doppia veste di azionista e intermediario finanziario), perché né dal governo italiano né da quello francese è mai arrivato un via libera all’ipotesi di una fusione che potrebbe come minimo richiedere una serie di misure compensative (quali la cessione delle attività francesi di Generali) per sperare di ottenere il via libera dell’Antitrust Ue.
La novità delle ultime ore è che ad opporsi a questa manovra di accerchiamento (vera o presunta che sia) potrebbe essere Allianz, numero due europeo con 76,7 miliardi di premi lordi raccolti nel 2015, che secondo alcuni sarebbe pronta a fare fronte comune con Intesa Sanpaolo, storico concorrente di Mediobanca ed interessata ad alcuni asset del gruppo (come la controllata Banca Generali, attiva nel risparmio gestito), pur di impedire ai rivali francesi di prendere il largo.
Che il “rischio” francese sia concreto è testimoniato anche dall’attivismo di Vincent Bollorè, finanziere bretone che con Vivendi oltre a controllare Telecom Italia (col 24,68%) è arrivato in pochi giorni ad un passo dalla soglia-Opa del 30% del capitale e dei diritti di voto di Mediaset, tra i soci rilevanti di Mediobanca (di cui ha l’8% e nel cui Cda siede la figlia Marie) come pure di Generali (0,13%) di cui fino al 2013 era vicepresidente.
Che un’ulteriore manovra a tenaglia su Generali possa dare fastidio a tanti sembra altrettanto evidente e il fatto che si parli proprio di Intesa Sanpaolo, sempre più calata nel ruolo di “banca di sistema”, come partner di una cordata che sbarrerebbe la strada ad Axa in cambio di asset con cui crescere e così sottrarsi al rischio di cadere a propria volta preda di qualche concorrente non sembra casuale.
Nel frattempo c’è chi sembra aver fiutato l’aria, come Francesco Gaetano Caltagirone, che ha deciso di muoversi arrotondando la propria partecipazione in Generali. Secondo quanto emerge dalle comunicazioni sugli internal dealing di Borsa Italiana l’imprenditore e finanziere romano, che di Generali è attualmente vicepresidente, ha infatti acquistato in due distinte operazioni un milione di azioni della compagnia triestina (lo 0,064% del capitale, che è andato a sommarsi al precedente 3,49%) con un investimento complessivo di 13,5 milioni.
Da notare come a settembre si era fosse già mosso, salendo al 3,163%, Leonardo Del Vecchio, patron di Luxottica che pochi giorni fa ha deciso di portare in dote la propria società alla rivale francese Essilor per dar vita a un colosso da 50 miliardi di euro (EssilorLuxottica) che dominerà un quarto del mercato mondiale dell’occhialeria e che sarà controllato con una quota tra il 30% e il 38% proprio dall’imprenditore italiano, che in cambio lascerà la gestione operativa al management francese.
Ma cosa cambia se una grande impresa, o un’assicurazione (o una banca) è guidata da un manager italiano o francese (o tedesco) o finanche se il capitale di controllo resta in mani “tricolori” o passa ad una proprietà estera? Secondo i cantori del capitalismo tricolore come l’economista Giulio Sapelli (e una nutrita schiera di politici) occorre difendere a tutti i costi gli asset strategici del patrimonio economico italiano che altrimenti perderebbe i suoi “punti di riferimento”.
Secondo altri come Mario Seminerio, più semplicemente, l’Italia è un paese “in cui i capitalisti non hanno capitale, da sempre, e preferiscono intessere rapporti malati con la politica e le banche, in chiave protezionistica”. Saltata la protezione delle banche, nota Seminerio, “la politica è finita con le spalle al muro” e ai gruppi italiani non resta che prendere atto che, soprattutto in settori maturi, essere pesci troppo piccoli comporta il rischio di finire preda di altri gruppi con le spalle più grosse.
Salvo, appunto, decidere come ha fatto Del Vecchio di muoversi per tempo accettando di scambiare il controllo assoluto in casa propria con una partecipazione rilevante in un gruppo di più rilevanti dimensioni. Non che sia un rischio solo italiano: per rimanere nel settore assicurativo europeo anche la svizzera Zurich (quinto gruppo con 46,7 miliardi di euro di premi lordi) è da tempo al centro di voci che la indicano come possibile preda, sempre di Allianz.
In ogni caso, con la crisi bancaria che resta a metà del guado, è previsione fin troppo facile dire che se non sarà Trieste a cadere sotto l’assalto di Parigi o Berlino, sarà qualche altro “gioiello della corona” che un paese per troppi anni incapace di crescere e dove le tasse drenano risorse per cercare di mantenere il consenso sociale più che per sostenere la crescita sarà costretto a cedere nei mesi e negli anni a venire. Non necessariamente a danno dei contribuenti e dei clienti di tali aziende e forse senza che i dipendenti corrano rischi maggiori a quelli che già oggi corrono, lavorando per soggetti mediamente meno competitivi dei loro concorrenti internazionali.