La generazione x y rischia di morire sul posto di lavoro, priva di una pensione pubblica. L’allarme è stato dato poco tempo fa da Manpower e dunque a maggior ragione è importante comprendere quali alternative vi siano alla previdenza “classica”, ossia se i fondi pensione funzionino e quanto. Al riguardo vengono in soccorso i numeri dell’ultima relazione annuale della Covip, la Commissione di vigilanza sui fondi pensione, presentata giusto oggi a Roma. Anzitutto un dato: la previdenza privata.tra fondi e casse previdenziali, come ha sottolineato il presidente di Covip, Mario Padula, ha superato a fine 2015 quota 210 miliardi di euro e i 9 milioni di iscritti.
In particolare in Italia sono operativi 469 fondi pensione (27 meno dell’anno precedente), di cui 36 negoziali, 50 aperti, 78 piani individuali pensionistici (Pip) e 304 preesistenti. Anche se in calo il numero dei “piccoli” fondi resta elevato, visto che sono solo 12 i fondi che raccolgono oltre 100 mila iscritti, mentre oltre la metà ha meno di mille iscritti (di questi però il 90% è costituito da fondi preesistenti). Un processo di concentrazione resta dunque auspicabile per consentire, grazie alle economie di scala, di migliorare l’efficienza di questi strumenti e poter generare rendimenti più soddisfacenti per i futuri pensionati italiani.
Nel corso del 2015 le adesioni ai soli fondi pensioni sono cresciute, al netto delle uscite, del 12,5% rispetto al 2014, con l’ingresso nel sistema di poco meno di 1 milione di nuovi assicurati, facendo così salire il totale degli iscritti ad oltre 7,2 milioni di cui 5,2 milioni di lavoratori dipendenti privati, 1,9 milioni di lavoratori autonomi e 174 mila lavoratori dipendenti del settore pubblico, che (forse anche perché comunque più garantiti dei lavoratori del settore privato) sembrano sentire meno l’esigenza di integrare la futura pensione pubblica con una forma di previdenza privata.
Non che il quadro sia solo rose e fiori: Padula ha sottolineato come resti diffuso il fenomeno delle interruzioni contributive, soprattutto fra le adesioni individuali dei lavoratori autonomi, con quasi 1,8 milioni di iscritti alla previdenza complementare che lo scorso anno non ha effettuato versamenti contributivi. Considerando solo chi ha versato contributi, il tasso di adesione tocca il 31% tra i lavoratori di pendenti privati, il 19% tra i lavoratori autonomi e appena il 5,2% tra i lavoratori pubblici.
Il patrimonio accumulato dalle forme pensionistiche complementari ha superato a fine2015 i 140 miliardi di euro (pari all’8,6% del Pil ma solo al 3,4% di tutte le attività finanziarie delle famiglie italiane), a fronte di contributi annui raccolti per 13,5 miliardi di euro. I rendimenti medi nel 2015 sono stati positivi per tutte le tipologie di forma e comparto dei vari strumenti previdenziali integrativi, risultando in particolare pari al 2,7% per i fondi negoziali e al 3% per i fondi aperti. I “nuovi” Pip di ramo III hanno ottenuto mediamente un 3,2%, le gestioni separate di ramo I hanno reso il 2,5% (il che sembra la spia di maggiori costi ovvero minore capacità di generare valore per gli iscritti da parte dei gestori di queste polizze finanziarie). Per fare un paragone nello stesso periodo i Tfr, complice un’inflazione sempre più ridotta, ha reso appena l’1,2%.
Ovviamente in un’era di tassi sempre più vicini a zero le linee di investimento a maggiore contenuto azionario hanno reso di più: il 5% medio per i fondi negoziali, il 4,3% medio per i fondi aperti e il 4,4% per i nuovi Pip. Ancora troppo eterogenei i costi: sui 10 anni un fondo pensione negoziale vede un Isc (indicatore sintetico di costo) pari allo 0,4%, un fondo pensione aperto all’1,3%, un Pip al 2,2%. Come dire che le assicurazioni si confermano i gestori più “esosi” sul mercato, ma non è una novità.
Piuttosto, nota la Covip, nonostante il costo più elevato proprio i Pip abbiano raccolto “la quota maggiore di nuove adesioni dall’avvio della riforma, grazie anche alle reti di vendita” (ossia ai promotori finanziari), e “ai relativi meccanismi di remunerazione”. Neppure questa, purtroppo, è una novità, semmai è la conferma che i promotori finanziari (che una recente riforma ha ridenominato “consulenti finanziari autorizzati all’offerta fuori sede”) operano tendenzialmente in conflitto d’interessi, visto che il loro mandato prevede un pagamento in base a provvigioni sul venduto che spinge in troppi casi l’intermediario a consigliare il prodotto/servizio a maggiore redditività (per la società e per lui), anche se inevitabilmente il maggior costo ricadrà sul cliente.
Del resto in un paese che dovrebbe garantire costituzionalmente il risparmio pubblico ma che ha in questi anni continuamente aumentato l’imposizione fiscale sullo stesso, c’è da aspettarsi questo e altro. Pur con questi limiti la previdenza privata (e il risparmio gestito in genere) resta l’unica alternativa concreta ad un “fai da te” che se a livello di investimento “a pronti” sui mercati finanziari è rischioso e non alla portata di chiunque, in ottica previdenziale, dunque di lungo periodo, è ulteriormente rischioso. C’è dunque da sperare che lo stato torni a favorire il risparmio, in particolare previdenziale, per poter compensare la minore assistenza e previdenza pubblica con cui inevitabilmente gli italiani dovranno convivere nei prossimi anni e decenni.