Le crescenti tensioni politiche contro la globalizzazione rischiano di far deragliare una ripresa mondiale che già da tempo è in cerca di un “motore” affidabile e non lo trova. L’allarme è contenuto nell’ultimo rapporto World Economic Outlook pubblicato stamane dal Fondo monetario internazionale (Fmi) in cui l’organismo guidato da Christine Lagarde conferma le stime già circolate a luglio, di una crescita del Pil mondiale del 3,1% quest’anno e del 3,4% l’anno venturo.
Numeri che visti dall’Italia sembrano astronomici eppure sarebbero il minimo indispensabile per veder calare, finalmente, il rapporto debito/Pil che nonostante le promesse e gli “ambiziosi” obiettivi del governo continua a restare su livelli di guardia e non vuol saperne di scendere, stante la debolezza della ripresa economica in atto. In ogni caso numeri che al Fmi appaiono essere la conferma di un’economia mondiale che segue “un percorso di crescita deludente”.
Di più: mentre le principali economie emergenti, che fino a pochi mesi fa apparivano a rischio frenata a causa dell’atteso rialzo dei tassi sul dollaro (poi slittato di mese in mese fino alla decisione di rimandare ogni decisione all’ultima riunione dell’anno della Federal Reserve, il prossimo dicembre), i paesi sviluppati appaiono maggiormente a rischio a causa delle crescenti tensioni politiche e del riaffiorare di approcci protezionistici.
Un giudizio che, sarà un caso, sembra ricalcare quello già formulato ieri dagli analisti di Fitch Ratings, secondo cui i rischi di un nuovo rallentamento della crescita dei paesi sviluppati sono aumentati in questi mesi. Fitch è però stata più decisa del Fmi e ha tagliato le sue previsioni di crescita degli Usa per il 2016 da +1,8% a +1,4% (un tasso che risulterebbe il minore segnato dal 2009 a oggi e che sarebbe in buona misura legato al rallentamento del settore petrolifero).
Fitch è particolarmente preoccupata dal fatto che la crescita in Eurolandia sembra avere già toccato un picco ciclico nel primo semestre dell’anno ed essere dunque a rischio di decelerazione, mentre in Gran Bretagna e Giappone non si nota alcuna accelerazione nonostante i notevoli sforzi compiuti dalle autorità monetarie dei due paesi. Così Fitch Ratings prevede che la crescita dei paesi sviluppati nel triennio 2016-2018 raggiungerà a fatica il già deludente +1,5% di crescita media annua visto tra il 2011 e il 2015, mentre il crescente populismo in ambito politico potrebbe essere precursore di un protezionismo di ritorno al pari delle tensioni disgregatrici in Eurolandia, rafforzatesi dopo il referendum inglese dello scorso 23 giugno e a causa della crisi dei migranti.
D’altra parte tensioni politiche e protezionismo accrescerebbero l’incertezza e minerebbero le prospettive per gli investimenti del settore privato in tutta l’Eurozona, il che per un paese come l’Italia dove già gli investimenti non raggiungono neppure il livello medio europeo potrebbe significare un nuovo stop. Il Fondo monetario internazionale, dal canto suo, segnala come anche gli umori sempre più esacerbati della campagna presidenziale in atto negli Usa non promettano nulla di buono.
Donald Trump, da un lato, cerca di canalizzare la rabbia dei colletti blu indirizzandola sui posti di lavoro persi a favore di paesi come Cina e Messico, mentre Hillary Clinton ora si dice contraria al trattato trans-pacifico TTP già siglato da Barack Obama (e dalla Clinton inizialmente appoggiato), che deve ancora essere ratificato dal Congresso. Gli atteggiamenti e i toni dei candidati presidenziali Usa, nota il Fmi, testimoniano “un consenso sempre più sfilacciato sui benefici dell’integrazione economica transfrontaliera”.
Qual è il pericolo legato a un protezionismo di ritorno? Secondo i calcoli del Fmi, l’introduzione di tariffe sulle importazioni che aumentassero i prezzi di un 10% si rifletterebbero in una crescita della produzione mondiale inferiore di circa il 2% nel lungo periodo. Come nel caso di un cane che si morda la coda, gli esperti del Fmi riconoscono che “la crescita è stata troppo modesta per troppo tempo e in molti paesi i suoi benefici hanno raggiunto troppo poche persone, con ripercussioni politiche che rischiano di deprimere la crescita globale ulteriormente”.
Dal canto loro gli analisti di Fitch notano anche come la capacità delle banche centrali di controbilanciare shock avversi alla crescita rischia di venir meno, dato che le implicazioni negative per la redditività delle banche di uno scenario di tassi bassi o negativi, la conseguente sempre maggiore difficoltà ad annunciare nuovi programmi di quantitative easing, la riduzione delle rendite per i risparmiatori e le distorsioni di mercato rendono sempre più complicato trasferire gli impulsi di politica monetaria all’economia reale, spuntando così le armi anche “non convenzionali” a disposizione delle banche centrali.
Così, forse, dovremo nuovamente sperare in un effetto-traino da parte dei paesi emergenti, con l’economia cinese che sembra stare riaccelerando, le prospettive economiche della Russia che vanno quanto meno stabilizzandosi e il rinnovato focus per una riforma fiscale in Brasile che sta offrendo un supporto alla ripresa della fiducia la quale a sua volta dovrebbe aiutare a stabilizzare lo scenario economico da qui a fine anno.
Ma se i paesi sviluppati cederanno alle sinistre sirene del protezionismo anche questo possibile traino finirebbe col venir meno. Storicamente l’autarchia non ha mai portato nulla di buono, specie a paesi come l’Italia: ci sarà qualcuno che se lo ricorderà o dovremo schiantarci nuovamente contro gli scogli di una recessione auto-indotta per riscoprirlo?