Sarà un caso, ma a neppure due giorni dopo che Deutsche Bank è finita sul banco degli imputati, col rischio concreto di dover pagare una maxi multa alle autorità statunitensi per chiudere l’inchiesta legata alla vendita di strumenti finanziari collegati ai mutui subprime poi finiti in default nel 2007, e mentre da tempo continua a levarsi contro Mario Draghi, presidente della Bce, il “grido di dolore” casse di risparmio tedesche, che accusano il banchiere italiano di aver ridotto troppo i tassi finendo con l’obbligare le stesse a varare operazioni di fusione e acquisizione per sopravvivere (ne sono state annunciate finora 20, ma al momento nessuna è giunta in porto ed anzi l’unione fra le casse dello Schleswig-Holstein e quelle del Niedersachen sarebbe già saltata), Fitch Ratings è tornata a dare una stoccata alle banche italiane.
La tesi non è così innovativa, anzi: secondo l’agenzia di rating l’implementazione delle linee guida Bce sui crediti deteriorati, annunciate appena la scorsa settimana ed attualmente in fase di consultazione da parte degli operatori, appare destinata a riportare l’attenzione di governi e autorità europee sulla modesta qualità degli asset delle banche italiane, sui cui rating Fitch è già intervenuta in modo negativo nel corso dell’anno, adottando un outlook negativo che riflette ulteriori probabili riduzioni del merito di credito a meno che le banche si adoperino in maniera effettiva per ridurre la mole dei crediti deteriorati (Npl).
A fine giugno, hanno ricordato gli analisti, l’esposizione complessiva delle banche tricolori a sofferenze e indempienze probabili su credito ha raggiunto i 340 miliari, una cifra pari a circa il 20% del Pil italiano, che al netto degli accantonamenti si dimezza a circa il 10% del Pil, 170 miliardi. Numeri che, lo abbiamo più volte sottolineato, pesano come un macigno sulla già modesta redditività degli istituti bancari italiani e che spiegano, tra l’altro, come mai per acquistare in blocco o separatamente le quattro “good bank” nate dalle ceneri delle risolte Banca Marche, Banca Etruria, CariFerrara e CariChieti non ci sia esattamente la folla, ovvero vi siano offerte ma, pare, siano quasi tutte condizionate ad una ulteriore riduzione degli organici e degli sportelli.
Fatto sta che se il piano approntato per portare a termine la pulizia di bilancio di Mps (cessione sul mercato di 27,7 miliardi di euro di sofferenze, ad un prezzo auspicato pari al 23% del valore lordo di libro, innalzamento della copertura sulle inadempienze probabili, lancio di un aumento di capitale da massimi 5 miliardi) non dovesse funzionare, visti i “rischi di esecuzione molto elevati”, una soluzione dovrà essere trovata in fretta per evitare che l’istituto senese fallisca e la crisi del credito italiano peggiori ulteriormente. Anche perché soluzioni che non passino per un “bail-in” a quel punto sarebbero “limitate” secondo Fitch.
Il ragionamento di Fitch è fin troppo convincente per gli investitori, che così sono tornati a cedere titoli di istituti italiani, con Mps stesso che ha chiuso in rosso dell’1%, Banca Carige del 6,7%, Banco Popolare del 2,4%, Ubi Banca dell’1,2%. Le vendite non hanno invece toccato Unicredit, perché oggi scadeva il termine accordato per la presentazione di offerte non vincolanti per Pioneer Asset Management, la controllata cui fa capo il risparmio gestito di Unicredit, ovvero la bellezza di 230 miliardi di euro di patrimoni sotto gestione. Un bel gruzzolo, in buona parte investito in titoli di stato, soprattutto italiani (si tratta della seconda maggiore concentrazione di titoli di stato in tutta Europa), su cui hanno messo gli occhi in tanti.
Favorita sembra la cordata Poste Italiane-Anima Holding (partecipata da Poste Italiane) e Cassa depositi e prestiti (che di Poste Italiane è un grande azionista), ma secondo Banca Imi sebbene “investimenti nel business del risparmio gestito siano coerenti con il piano di Poste”, “un operatore già attivo nell’asset management potrebbe estrarre più sinergie dell’integrazione con Pioneer, principalmente sul fronte dei costi”. Così non è detto che altri concorrenti come Abardeen, Amundi, Allianz, Axa, Franklyn o Macquarie siano disposti a rinunciare tanto facilmente.
Meglio per Jen-Pierre Mustier, che dal suo arrivo in Unicredit nel ruolo di amministratore delegato ha rapidamente avviato una campagna di cessioni tesa a raccogliere quanti più mezzi freschi possibili, così da ridurre l’esborso da richiedere al mercato tramite un aumento di capitale che in assenza di dismissioni avrebbe potuto oscillare secondo gli analisti tra i 4 e gli 8 miliardi di euro. Così, invece, non si dovrebbero superare i 3-5 miliardi nel caso di una contemporanea cessione, previo accantonamento di ulteriori riserve, di una ventina di miliardi di Npl. Unico punto interrogativo, come per Mps, è il prezzo al quale il mercato sarà disponibile ad assorbire i crediti una volta cartolarizzati.
Dipenderà da vari fattori tra cui la volatilità dei mercati, l’andamento dei tassi d’interesse negli Usa e in Europa, la concomitanza col collocamento di asset da parte di altri istituti come Banca Carige e Mps, le prospettive per l’economia italiana e mondiale. Dipenderà anche dalla possibilità che avrà il governo di intervenire, magari proprio tramite Cassa depositi e prestiti, varando ulteriori strumenti che affianchino quelli già messi in campo come il fondo Atlante per far decollare il mercato degli Npl e favorire il consolidamento del settore bancario.
Dipenderà, da ultimo, dalla capacità che avrà il paese di avviare una ristrutturazione del suo settore creditizio troppo a lungo rinviata per questioni politiche (di poltrone e non solo), evitando tuttavia che le banche italiane siano le uniche a finire sul banco degli imputati, magari pagando anche per colpe altrui oltre che per le proprie (che pure non mancano).