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Fisco: anche nel 2015 la confusione è massima in Italia

Il 2015 si apre per i contribuenti italiani sotto auspici non molto differenti da quelli del 2014: il governo spera nella crescita e prende tempo per far quadrare i conti, col rischio di una successiva stangata e senza una strategia a medio termine…
A cura di Luca Spoldi
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Mentre un Mario Draghi sempre più preoccupato per il “rischiodeflazione fa sapere alla stampa tedesca che la Bce è pronta a considerare un ampliamento e una variazione del mix di misure adottate per assicurarsi che la Bce tenga fede al suo mandato (che è quello di mantenere i prezzi attorno ad una crescita di poco inferiore al 2% annuo nel lungo periodo, evitando dunque sia fiammate inflazionistiche sia prolungati periodi di crescita troppo bassa dei prezzi stessi), cosa che fa segnare ai tassi sui Btp decennali italiani nuovi minimi record appena sopra l’1,82% lordo annuo, contro l’1,54% espresso dai Bonos decennali spagnoli (che però con un’inflazione negativa dello 0,4% equivalgono a poco meno del 2% lordo annuo reale, contro poco più dell’1,6% lordo annuo reale dei titoli italiani, che si confrontano con un inflazione di poco inferiore allo 0,2%), e nuovi rialzi per i principali titoli bancari, gli italiani non possono tirare ancora un sospiro di sollievo.

Se infatti l’azione di stimolo da parte della Bce appare indispensabile per sperare di far uscire l’Eurozona dalla fase di stagnazione che da qualche tempo sta nuovamente attraversando, in parte per problemi strutturali propri come il progressivo invecchiamento della popolazione (oltre che per la difficoltà che i governi incontrano nel varare riforme che avrebbero dovuto essere fatte, semmai, una decina d’anni fa, ossia ben prima della crisi mondiale del 2008, quando ancora l’economia cresceva), in parte per la tenuta sempre più incerta della crescita dei paesi emergenti, colpiti dopo il rialzo dei tassi americani dal calo delle quotazioni delle materie prime di cui molti sono esportatori netti (oltre che da vicende specifiche come le sanzioni comminate da Usa e Ue alla Russia a seguito della crisi con l’Ucraina), non si può dire, nonostante una martellante quanto retorica propaganda, che la politica fiscale stia in alcun modo dando una mano a far ripartire l’economia reale.

Al disagio di dover pagare in proporzione al proprio reddito e patrimonio sempre di più per avere sempre di meno in termini di servizi pubblici, nel caso dell’Italia si somma anche una pervicace abitudine a “gestire” la politica fiscale in modo quanto meno bizzarro, spesso inseguendo obiettivi politici di brevissimo respiro e senza sembrare aver un quadro chiaro di riferimento a medio termine, col rischio che l'incertezza fiscale possa frenare decisioni d'investimento e consumo e agire in senso opposto alla crescita. A dirla tutta la politica fiscale italiana sembra, come scrive l’economista Mario Seminerio sul blog Phastidio, “il volo di un calabrone impazzito” (per mere finalità propagandistiche). Si prenda l’annosa vicenda dell’Imu: la “cancellazione” (varata trovando coperture solo per un anno) dell’imposizione dalla prima casa, uno dei cavalli di battaglia della propaganda berlusconiana, era stata ottenuta incrementando gli “acconti” (si fa per dire visto che ormai siamo ad oltre il 100%) di Ires e Irap sulle imprese, di fatto obbligando le stesse ad un prestito infruttifero a favore dello stato (alla faccia della supposta “attrattività” dell’Italia per le imprese medesime, italiane o estere che siano).

Ovviamente avendo aumentato nel 2014 oltre il 100% “l’acconto di tali imposte, per il 2015 si è automaticamente creato un buco pari alla quota eccedente il 100% delle medesime, buco “tappato” prevedendo tra le clausole di garanzia l’ennesimo aumento delle accise sui carburanti (accise che già oggi pesano per oltre il 50% del prezzo alla pompa di benzina e diesel), aumento che sarebbe dovuto scattare il primo gennaio. Così non è stato per fortuna: il previsto gettito fiscale (671 milioni, che sarebbero dovuti servire appunto solo a chiudere la partita di giro relativa alla cancellazione, per il solo 2014, dell’Imu sulle prime case) è così stato, per compensazione, individuato nei futuri proventi della “voluntary disclosure”. Un provvedimento, quest’ultimo, dal cammino tormentato che avrebbe dovuto vedere la luce già lo scorso anno ed invece è entrato in vigore dal primo gennaio e prevede la possibilità di far “rientrare” in Italia (entro il 30 settembre prossimo) capitali detenuti illecitamente all’estero da contribuenti italiani.

Ora naturalmente tutti sperano che questo provvedimento (guai a chiamarlo condono) possa produrre risultati eccellenti, tanto che alcuni già parlano dell’emersione di capitali fino ad una cifra pari a 80-100 miliardi di euro (soldi in gran parte in Svizzera su cui stanno cercando di mettere le mani in primis le reti di promotori finanziari e le banche d’affari italiane), ma se non dovesse registrarsi un successo sufficiente? Ci si penserà dal primo ottobre, quando entreranno in vigore eventuali nuovi “acconti” Ires e Irap ed eventualmente pure l’incremento delle accise sui carburanti dal primo gennaio del prossimo anno, calcolati in modo da compensare le “minori entrate che si dovessero generare per effetto dell’aumento degli acconti”. Col che una regalia elettorale effettuata nel 2014 continuerebbe a produrre effetti (nefasti) a distanza di due anni. Il tutto senza contare che un’altra regalia elettorale, il famoso “bonus Irpef” da 80 euro lordi al mese per i lavoratori dipendenti non solo non sta producendo alcuna spinta sensibile alla crescita del Pil italiano, ma ci costa circa 10 miliardi di euro l’anno, soldi che si sarebbero forse potuti spendere meglio o almeno in modo socialmente più equo.

Così ancora una volta l’Italia, dopo aver costruito negli scorsi decenni la forca a cui impiccarsi a furia di finanziare a debito una crescita fragile trainata da una spesa pubblica di qualità scadente, tenterà ancora per un anno di rinviare la propria esecuzione sperando nella materializzazione della crescita, con equilibrismi lessico-fiscali che vorrebbero da un lato convincere i contribuenti-consumatori che le tasse stanno calando (della serie “non è vero ma ci dovete credere”) dall’altro rassicurare l’Europa che stiamo facendo tutto quanto richiesto per riportare sotto controllo debito/Pil (che invece crescerà sinché il Pil nominale, ossia il Pil reale più l’inflazione, non crescerà almeno del 4% annuo così da pareggiare il costo lordo del debito in termini di interessi: auguri). Per fortuna Draghi, che riesca o meno a varare l’atteso “quantitative easing”, riesce per ora a indurre i mercati a mantenere bassi i tassi d’interesse sui bond, comprimere gli spread tra titoli di emittenti come Italia o Spagna e titoli “sicuri” come quelli tedeschi e indebolire l’euro, dando fiato all’export.

Il problema è che questo tipo di sostegno è di per sé a termine e non potrà per sempre sostituirsi, oltre che alla politica fiscale, ad una politica industriale, energetica e a favore dell’innovazione. Tutti campi in cui come più volte detto nel corso anche del 2014 l’ex “bel paese” continua a mostrare un preoccupante gap culturale oltre che operativo, gap il cui costo viene scontato dagli italiani tutti ed in particolare dalle fasce più deboli del mercato del lavoro come giovani e donne. Da questo punto di vista non ci sono novità in questo inizio 2015 rispetto allo scenario deprimente che ha caratterizzato l’ultimo trimestre del 2014.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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