Sergio Marchionne ha un sogno e dopo essere riuscito a vincere la partita su Crysler non lo nasconde più: “uscire dal mass market, dove i clienti sono pochi, i concorrenti sono tanti, i margini sono bassi e il futuro è complicato”, quello delle Panda e delle Punto insomma, e riposizionarsi “nella fascia premium, prodotti di alta qualità, con concorrenza ridotta, clienti più attenti, margini più larghi”. Un sogno che non è nuovo visto che è da almeno 15 anni che gli analisti finanziari si arrovellano a cercare di capire se il gruppo italiano possa o meno diventare più simile a Bmw che a Peugeot, con tutto quello che consegue in termini di riorganizzazione produttiva (meno uomini e stabilimenti, ma maggiori investimenti).
Per riuscire a coronare quella che potrebbe essere l’ultima grande partita della sua invidiabile carriera di manager (e pokerista, per usare un paragone azzeccato fatto dal Financial Times pochi giorni fa), Marchionne sogna il rilancio in grande stile di Alfa Romeo e Maserati, così da avvicinarsi al modello Bmw ma qualche dubbio al riguardo resta: secondo Marchionne in fantomatici “capannoni-fantasma”, vi sarebbero “squadre di uomini nostri (che) stanno preparando i nuovi modelli Alfa Romeo che annunceremo ad aprile”.
Ma in Italia il gruppo ha le linee di produzione ferme a Cassino (3.880 operai in cassa integrazione che aspettano i promessi nuovi modelli Alfa Romeo), Melfi (per i lavori di adeguamento di una linea destinata alla 500X e alla Mini Jeep, mentre resta in attività quella che produce la Grande Punto con metà dei 5570 dipendenti in cassa integrazione a rotazione), Mirafiori e Grugliasco (5321 dipendenti in cassa integrazione straordinaria fino a settembre in attesa del completamento della riorganizzazione produttiva in chiave Maserati) e Pomigliano (dove restano in cassa integrazione straordinaria a rotazione circa 2300 dipendenti in attesa che una seconda vettura si affianchi alla produzione della Panda). Senza contare che a Termini Imerese (dove la produzione è cessata il 24 novembre 2011) la cassa integrazione finirà a giugno per Fiat e a seguire per le aziende dell’indotto senza concrete speranze di un qualsiasi riavvio.
Come dire che di spazi e di uomini Marchionne ne avrebbe a disposizione fin troppi, come troppi sono ancora i marchi e le piattaforme, problema noto da anni ma da anni irrisolto, che razionalmente dovrebbe portare alla vendita dei marchi Fiat e Lancia, ma Marchionne diplomaticamente parla di un riposizionamento nella fascia alta del mass market rappresentato dalle sole famiglie Panda, Cinquecento e Ypsilon. Il ragionamento può avere una sua valenza logica, visto che senza i volumi del mass market è difficile vivere di produzioni “premium” se non si è Toyota o General Motors, stupisce semmai la totale assenza di un qualsiasi riferimento alla famiglia Punto, il che forse è una prova del secondo grande problema che resta al gruppo: l’accesso a capitali sufficienti a sostenere un rilancio “stand alone” ed eventualmente, un domani, una nuova acquisizione.
Operazione, questa, che sarebbe utile per arrivare a produrre almeno a quei 6 milioni di auto all’anno (contro i 4,4 milioni attuali di cui solo 1,5 milioni prodotti da Fiat) che lo stesso Marchionne ha più volte indicato come minimo per sopravvivere in un mercato sempre più competitivo, in Europa come in America e ormai pure in Cina, dove il gruppo non sembra ancora avere una strategia convincente mentre altri concorrenti internazionali si contendono il primato a suon di milioni di vetture vendute (3,27 milioni per Volkswagen secondo le prime stime, contro 3,16 milioni di General Motors, 1,27 milioni per Nissan e poco più di un milione per Hunday). Basterà Chrysler coi suoi flussi di cassa e i suoi utili a far vincere quella che potrebbe essere l’ultima partita a poker di Sergio Marchionne?
Secondo alcuni occorrerebbe un “uomo-macchina”, come fu Vittorio Ghidella, ultimo grande ingegnere ai vertici del gruppo Fiat, in grado di immaginare nuove macchine e non solo nuove operazioni finanziarie. Servirebbe, insomma, una sorta di “ritorno al passato”. Una ricetta affascinante se non fosse che potrebbe essere viziata da un vizio di fondo: credere che sia possibile riportare indietro le lancette dell’orologio, il che probabilmente non è possibile. Fiat scelse già negli anni ottanta la strada della diversificazione e della finanziarizzazione della sua gestione più che della specializzazione produttiva. Per cambiare strada occorreranno nuovi uomini e nuovi capitali, più che capannoni fantasma: in bocca al lupo.